La macabra partita a scacchi tra Obama e il “califfo” al-Baghdadi miete ieri altre vittime: ogni mossa costa delle vite, quelle dei reporter Sotfloff e Foley, quelle dei soldati iracheni che combattono in prima linea una guerra settaria figlia delle strategie Usa, quelle dei rifugiati in fuga dalle violenze dell’Isis.

Mercoledì il pranzo alla Casa Bianca è stato interrotto da un barbaro annuncio: il freelance statunitense (e, dice Tel Aviv, anche cittadino israeliano) Steven Sotloff, 31 anni, corrispondente di Time e Foreign Policy, è stato giustiziato. In rete è subito circolato il messaggio destinato al presidente Obama. Stesso copione: la vittima inginocchiata a terra, avvolta nella tuta arancione dei prigionieri del famigerato carcere Usa di Guantanamo, il suo aguzzino in piedi. Il miliziano è lo stesso che uccise Foley, dicono gli esperti, vestito di nero, volto coperto e accento inglese: «Obama, sono tornato». Come il collega, anche Sotloff è costretto a recitare il copione preparato dagli islamisti e accusare gli Stati uniti di averlo ucciso sganciando bombe contro le postazioni Isis in Iraq.

Al nuovo video-messaggio il presidente ha risposto con un secco «Non ci facciamo intimidire» e ordinato l’invio di altre 350 truppe statunitensi a Baghdad, ufficialmente a difesa degli interessi americani e dell’ambasciata. Una decisione – sottolinea il Pentagono – già presa nei giorni precedenti su richiesta del Dipartimento di Stato. Ormai supera i mille il numero di militari Usa in Iraq, sebbene Obama continui a precisare che nessuno dei soldati delle unità speciali parteciperà a combattimenti. Si limiteranno a difendere le sedi diplomatiche e a fornire assistenza tecnica all’esercito iracheno e ai peshmerga curdi, all’interno dei centri di coordinamento militare a nord del paese.

Nelle prossime ore, aggiunge la Casa Bianca, Obama volerà in Europa dove incontrerà gli alleati del Patto atlantico e «si consulterà con i partner della Nato riguardo azioni ulteriori da prendere contro l’Isis e lo sviluppo di una coalizione internazionale che implementi una strategia comprensiva per proteggere la nostra gente». Una coalizione internazionale, truppe addizionali e l’ennesima pioggia di armamenti ai paesi mediorientali: mercoledì è arrivata la notizia della finalizzazione dell’accordo tra Francia e Arabia Saudita per armare l’esercito libanese al confine con l’instabile e contagiosa Siria, un contratto da 2,3 miliardi di euro che il presidente francese Hollande ha definito necessario alla realizzazione della «priorità comune di pace e sicurezza in Medio Oriente». Priorità comune con un paese, l’Arabia Saudita, accusato da più parti di aver indirettamente foraggiato i gruppi islamisti oggi attivi in Siria e Iraq, fornendo loro armi, stipendi e nuovi miliziani.

Dall’altra parte del Mar Rosso, era l’Egitto del golpista al-Sisi a ricevere il sostegno militare statunitense: una delegazione di parlamentari Usa ha incontrato il presidente – non certo un campione di democrazia, responsabile di un colpo di Stato contro un presidente democraticamente eletto e di una violenta e mortale repressione contro la Fratellanza Musulmana – con cui ha discusso del prossimo invio al Cairo di dieci elicotteri Apache per azioni di controterrorismo in Sinai. Nell’ottobre 2013 Washington aveva temporaneamente sospeso gli aiuti militari all’Egitto (1,3 miliardi di dollari) a causa delle violazioni in corso e l’assenza di riforme democratiche, per poi riattivarli quest’anno.

Armi a volontà, ma dall’alto pioveranno solo bombe. Obama non vuole infognarsi in un’altra guerra guerreggiata. Eppure alcune voci dal campo di battaglia raccontano una storia diversa: nella ripresa dei villaggi della provincia di Diyala – quasi del tutto occupata dall’Isil – accanto a peshmerga, soldati governativi iracheni e volontari sciiti si sarebbero viste anche unità speciali Usa. A rivelarlo è il quotidiano Daily Beast che cita testimoni oculari e ufficiali curdi.

A Baghdad intanto infuria la battaglia politica: l’11 settembre scade il termine per la formazione del nuovo governo guidato da al-Abadi. Fonti interne al parlamento parlano di «esecutivo quasi pronto» dopo aspri negoziati che per ora avrebbero portato ad un risultato: un governo diviso a metà, 50% dei ministeri alla maggioranza sciita e il restante 50% alle minoranze curda e sunnita. Le Finanze e la segreteria generale del primo ministro andrebbero a Muwatin, il Blocco dei Cittadini di Ammar al-Hakim; il Ministero delle Comunicazioni al movimento sadrista e quello degli Esteri al curdo Zebari. Alla coalizione Stato di Diritto sarebbero assegnati i strategici dicasteri della Difesa e del Petrolio.

Non molla la presa il premier uscente Maliki: dopo lo show nella città liberata di Amerli, nella capitale fa pressione per porre i suoi uomini in posizioni chiave e continuare così a gestire indirettamente il potere. In parte ci è già riuscito: il fedelissimo al-Shalah è ora capo del Iraqi Media Network (compagnia statale che gestisce la tv e la radio pubblica) e Mohsen al-Alak è stato nominato governatore ad interim della Banca Centrale.