In Nepal la terra continua a tremare. A poco più di due settimane dal violento terremoto – 7.8 sulla scala Richter – che ha messo in ginocchio il paese, ieri pochi minuti prima delle 13 (ora locale) una nuova forte scossa, 7.3, ha fatto crollare, durante un lungo e interminabile minuto, gli edifici che l’urto del sisma dello scorso 25 aprile aveva risparmiato.

In mattinata tutte le reti nazionali avevano diffuso la notizia che il pericolo ormai era rientrato e che le persone avrebbero potuto tornare a casa. Poche ore dopo, la nuova scossa con epicentro a 15 km di profondità sotto Namche Bazar vicino all’Everest, 80 km a est di Kathmandu, non lontano dal confine cinese. Anche a New Delhi e in altre zone del nord dell’India così come a Dacca, la capitale del Bangladesh e in Cina, alle persone è sembrato di «stare in barca con il mare in tempesta».

Secondo il Ministero dell’Interno sono almeno 40 le vittime – alcune in India – e oltre un migliaio di feriti. Numeri destinati ad aumentare man mano che proseguono le ricerche e che si aggiungono agli 8 mila morti e agli oltre 16 mila feriti del primo sciame sismico. A Kathmandu ancora una volta le persone si sono riversate tutte in strada, il più lontano possibile dagli edifici. Erica Beuzer cooperante del Gruppo di volontariato civile italiano ha raccontato che nella capitale «le persone si sono attrezzate per passare la notte all’aperto in ripari di fortuna nell’ennesima notte insonne. Le serrande dei negozi sono tutte abbassate, hanno aperto qualche ora solo i negozi di generi alimentari per permettere di fare scorta di viveri». Le persone sono paralizzate dalla paura e quello che preoccupa adesso, più che un’altra scossa, è la tenuta di nervi della popolazione, stremata prima di tutto psicologicamente.

Insieme all’entità dei danni quello che è difficile da prevedere, al momento, è l’impatto di questa nuova scossa arrivata proprio mentre si cercava, a fatica, un ritorno alla normalità. Il timore che scoppi una rivolta è pari a quello della diffusione di un’epidemia provocata dalla presenza di corpi e carcasse di animali ancora sotto le macerie. Le devastazioni provocate dall’ultima scossa ritardano ulteriormente lo stato di avanzamento dei soccorsi che, prima ancora dell’inefficienza e dell’elevato tasso di corruzione che olia i meccanismi che muovono l’apparato statale nepalese, devono superare un ostacolo di ordine prettamente logistico che attiene alle dimensioni dell’aeroporto.

Lo scalo della capitale – rimasto chiuso ieri per una manciata di ore – è piccolo, nonostante il gran via vai di turisti, e per nulla attrezzato a gestire un elevato flusso di arrivi. Montagne di cibo, medicinali, tende sono stipate, accatastate, quasi dimenticate sulla pista di atterraggio in attesa che la dogana finisca di ispezionare un pacco alla volta e che il governo trovi le risorse per distribuirli. A questo si aggiunge la mancanza di coordinamento che provoca una distribuzione disomogenea.

La Commissione locale per i diritti umani, durante una ricognizione nei distretti più colpiti dal sisma, Sindhupalchok, Dolakha e Kavre, ha denunciato che coloro che vivono nei pressi delle principali vie di comunicazione hanno ricevuto più aiuti degli abitanti delle zone remote. «La distribuzione – ha spiegato – si è concentrata in poche aree, nella maggior parte dei villaggi non è ancora arrivato niente. La situazione è aggravata anche dalla presenza di un elevato numero di funzionari e squadre di monitoraggio che, più che coordinare, intralciano le operazioni di soccorso». Molti villaggi non sono ancora stati raggiunti perché le strade sono impraticabili; gruppi di volontari in bicicletta e moto hanno cercato di trasportare quanti più aiuti potevano caricandoseli sulle due ruote mentre le reali condizioni di molte zone sono state appurate solo tramite le ricognizioni con gli elicotteri.

La conformazione orografica del territorio di certo non aiuta e l’arrivo imminente dei monsoni obbliga a una corsa contro il tempo prima che le piogge rendano ancora più impraticabili le strade già interrotte dalle frane.

«Ci sono tutti gli ingredienti perché la macchina degli aiuti rallenti» ha spiegato Marco Rotelli, il segretario generale di Intersos, l’unica Ong italiana che si occupa di aspetti umanitari, ma comunque «il sistema che si è attivato in questo caso è quello più funzionale possibile alla luce delle risorse disponibili». L’intero sistema dell’organizzazione umanitaria esce da un 2014 difficile con interventi nelle Filippine, in Iraq, in Sud Sudan, nella Repubblica centrafricana, gli strascichi del conflitto in Siria fino all’ebola, Gaza e tutto quello che ci sarà da fare in Yemen, che hanno prosciugato le riserve nei magazzini. Milioni gli euro che servono per ripristinare gli stock.