Voluti dalla Casa Bianca, addestrati dalla Cia e armati dal Pentagono. Ma fallimentari: il primo gruppo di ribelli siriani creato dagli Stati Uniti per combattere il presidente siriano Assad e frenare l’avanzata dello Stato Islamico ha già sventolato bandiera bianca. Dopo mesi di scontri contro i qaedisti del Fronte al-Nusra, ieri il movimento Harakat Hazm si è dissolto, non prima di aver perso a favore dell’avversario islamista le armi made in Usa.

Harakat Hazm era stato creato lo scorso anno: composto da 5mila miliziani, operativo nel nord della Siria, oggi quasi del tutto sotto il controllo di Isis e al-Nusra, oltre che dalla resistenza kurda, è stato il primo a ricevere direttamente dalle generose mani Usa missili anti-carro Tow e consistenti aiuti militari. Così dopo il ripiegamento del Fronte Rivoluzionario Siriano (altro gruppo sostenuto dall’Occidente) dalla regione nord-occidentale di Idlib a favore di al-Nusra, ora ad arretrare è la creatura Usa: domenica il portavoce del gruppo, Ahmad al-Ataribi, ha fatto sapere che dopo l’uccisione di decine di miliziani durante scontri con al-Nusra nel villaggio di Atareb – al confine turco – e la perdita del quartier generale del movimento nell’importante base militare 46 ad Aleppo, il gruppo ha deciso di mollare.

Harakat Hazm era lo strumento creato all’interno del Commando Militare Operativo, gestito da Stati occidentali e arabi, basato in Turchia e Giordania, impegnato nella distribuzione di armi. Il Commando aveva dispiegato il gruppo nell’area di Aleppo.

Una sconfitta cocente per Washington che sta lanciando in questi giorni un nuovo programma di addestramento di 15mila ribelli in Turchia. Nelle stesse ore la Casa Bianca incassava il secco no delle opposizioni moderate ai cessate il fuoco locali proposti dall’inviato Onu de Mistura. Il piano, accettato da Damasco, è stato rigettato dalla Coalizione Nazionale (per l’Occidente da tre anni l’unico rappresentante legittimo del popolo siriano, seppur inefficace sul terreno). E seppur Washington non abbia mai aperto ad alcun tipo di accordo, anche temporaneo, con Assad, il rifiuto perentorio di opposizioni ormai debolissime sia a livello diplomatico che militare non aiuta certo la strategia statunitense.

E mentre la Siria resta schiacciata dalle divisioni interne, in Iraq la situazione non è migliore. A mordere sotto i settarismi etnici e religiosi, rimasti sopiti durante il regime di Saddam e dal pugno duro del partito Baath, e riesplosi con l’occupazione Usa. Ne è specchio l’offensiva lanciata ieri all’alba dal governo di Baghdad contro Tikrit, città natale di Hussein, occupata dallo Stato Islamico come gran parte della provincia di Salah-a-din.

Accanto ai 30mila soldati governativi, il premier al-Abadi ha schierato kurdi, miliziani sciiti e sunniti e volontari ribattezzati Unità di mobilitazione popolare. Una controffensiva in larga scala, prova generale per quella pianificata per la riconquista di Mosul, prima città a cadere in mano al califfato. Secondo fonti locali, già ieri l’esercito aveva ripreso alcuni quartieri periferici di Tikrit a nord, sud e ovest.

A preoccupare è il possibile acuirsi delle divisioni interne: non tutte le tribù sunnite si sono schierate al fianco di Baghdad, preferendo in molti casi lo Stato Islamico, simbolo dell’opportunità di riconquistare il controllo del paese perso con la caduta di Saddam. Il nemico, per alcune comunità sunnite, non sono gli islamisti ma gli sciiti che non hanno mancato di inimicarsi ulteriormente le tribù commettendo razzie e massacri nei villaggi liberati dallo stivale islamista.