«Per me i film sono come castelli di sabbia, – dice Robert Altman all’inizio del documentario dedicatogli da Ron Mann, con la consulenza della moglie del regista, Kathryn Reed Altman – Prendi un gruppo di amici e ti dici, ‘Possiamo fare insieme questo grande castello di sabbia.’ E lo costruisci. Poi arriva la marea e in venti minuti c’è solo la sabbia, liscia. E quella struttura che avevate costruito rimane solo nella memoria di ciascuno e questo è tutto.» Il cinema di Altman invece non è affatto un castello di sabbia: ha lasciato solchi profondi, disegni complessi, architetture fantastiche e indecifrabili sulla sabbia.

Il regista Ron Mann, autore di film che osservano il paesaggio sociale americano come controcultura, come Grass sull’uso della marjuana e Go Further, con i militanti ecologisti guidati da Woody Harrelson, racconta qui il suo Altman, innovatore dissacrante e critico. Nel film mostra persino un frammento di un inedito home movie girato tra un film e l’altro dal nostro, in cui un montaggio sofisticato fa girare una canna tra le mani di persone nei posti più improbabili, dal salotto alla moto d’acqua, oppure riporta la scena in cui il candidato Tanner (dell’omonima serie tv che innovava allora quello che si fa ancora adesso in tv) spiazzava i suoi e gli avversari proponendo la liberalizzazione della cannabis.

Altman ripercorre la carriera del regista chiave degli anni ’70, che partecipa attivamente al raccontarsi, in interviste, presentazioni a università o festival, e attraverso filmini di famiglia, con foto, immagini girate sui set, brevi clip, inclusi i materiali poco noto del lavoro di Altman in tv. La punteggiatura del documentario è costituita da una serie di primi piani dei suoi attori feticci, che definiscono il significato che ha per loro il termine «Altamaniano», in prima battuta sciolto come «caratterizzato da naturalismo, critica sociale, sovversione dei generi.» Sfilano dunque Keith Carradine, Lily Tomlin, Bruce Willis, Robin Williams (che con Altman debuttò nel cinema con Popeye), Elliott Gould, Julianne Moore, Lyle Lovett e Michael Murphy.

Il film parte con il lento avvio nel cinema industriale e i telefilm girati per varie serie come Avventure in elicottero che gli fece incontrare Kathryn, quando per girare un episodio si impiegavano due giorni e mezzo. Fin da allora Altman è un ribelle che fa parlare più attori contemporaneamente (overlapping dialogue) o insiste per utilizzare in una storia un attore di colore, per cui viene puntualmente licenziato. Gli succede anche con Countdown, in cui l’astronauta americano (James Caan) arriva sulla luna due anni prima dell’evento reale. Il successo giunge inaspettato con MASH, un copione che 15 registi prima di lui avevano rifiutato, nel filmare il quale dà spazio ai suoi attori di improvvisare, e dove usa secchiate di sangue con l’obiettivo di rappresentare la realtà, ma quello di Altman è sempre un vero più vero del vero, sensoriale oltre che sociale. Dopo questo grande successo sia critico che commerciale, decide di girare il personalissimo Anche gli uccelli uccidono, l’antiwestern I compari con i suoi interni così bui che i direttori della fotografia si rifiutavano di girarli, The Long Goodbye col suo stile casual e i movimenti di macchina che spiano i personaggi dal di fuori (observational) e California poker in cui rifiuta di riprendere il sonoro con la solita giraffa, e lo registra invece con microfoni radiofonici e registratori a 8 piste.

La collaborazione con la sceneggiatrice Joan Tewkesbury ci porta a Nashville, la messa in scena corale ed apica del quintessentially American, la country music, «disturbata» alla fine da un attentatore. A chi sottolinea che i suoi film «distruggono i miti americani» Altman risponde però: «Io non voglio distruggere i miti ma raccontare ciò che vedo». Il film infatti fa un ottimo uso di interviste o presentazioni del regista stesso, per fargli raccontare il suo lavoro, come quando spiega il suo credo nel cinema come arte collaborativa e soprattutto la grande importanza che attribuiva agli attori, di qui la libertà che lasciava loro.
Altman non nasconde i flops, i clamorosi fiaschi sia critici che commerciali di Quintet, A Perfect Couple, Health, ma soprattutto di Popey, debutto sul grande schermo di Robin Williams, dalle critiche così impietose che avrebbero messo a terra chiunque. Ma non Altman, che decide di andare in volontario esilio a Parigi e fare piccoli film, per tornare poi alla grande con I protagonisti, America oggi (che vince il Leone d’oro a Venezia), Gosford Park e il nostalgico remake di Nashville, Radio America, suo ultimo film. In questi anni ha realizzato anche per la tv una delle più innovative serie politiche, Tanner 88 fiction, reality e vero documentario, che mette in discussione la politica nell’era tv. Nel 2006, durante la cerimonia per la consegna dell’Oscar alla carriera ha confessato di aver subito un trapianto di cuore, ma ha rassicurato i potenziali datori di lavoro dicendo che era il cuore di una trentenne.

A chiudere una frase coraggiosa e sarcastica come poteva essere lui, «La fine che si conosce è la morte. Non c’è un lieto fine, ci sono solo lieti stopping places (luoghi dove fermarsi).» Altman ci propone quindi un’immagine sfaccettata – come frammentaria e corale era quella dei suoi film – del regista: coraggioso, filibustiere, family man, giocatore d’azzardo, innovatore stilistico, democratico sincero, critico del suo paese come di Hollywood, un ritratto non retoricamente celebrativo ma partecipe e intelligente.