Il nuovo libro di Carlo Cellamare offre la visione «meravigliosa» di una città – Roma – in cui pullulano pratiche alternative dell’abitare, «intrise» di progettualità: esperienze microterritoriali, miniaturizzate, eterogenee, esterne alla fissità del modello dominante.

IL PICCOLO MA DENSO Città fai-da-te. Tra antagonismo e cittadinanza. Storie di autorganizzazione urbana (Donzelli, pp. 186, euro 16) è un diorama che ha il sapore di riflessione sintetica da Que-sais-je?, di sosta nel percorso di ricerca e coinvolgimento personale che Cellamare esercita da decenni negli interstizi della capitale.

Nel libro, l’autore ingegnere-urbanista rimarca puntualmente la cifra progettante delle realtà autogestite (e il loro valore istituente): pratiche che segnano la strada per «dare seguito a nuove capacità progettuali»; che recuperano e restituiscono alla città spazi ad alta disponibilità sociale altrimenti preda dell’abbandono e della speculazione immobiliare; che attivano solidarietà e collaborazioni sociali. In sintesi, processi di «immaginazione in azione» che «mettono al lavoro una diversa idea di città».

Lungi dal rappresentare un racconto agiografico, la rassegna di utopie concrete mette anzi in guardia dall’ambiguità del ruolo di supplenza che tali istituzioni intermedie esercitano nei confronti delle carenze dell’amministrazione pubblica; e dal pericolo che la riappropriazione degli spazi urbani e la costruzione di pubblico autoprodotto possa costituire, a causa della complessità di relazioni e democrazia interne, un nuovo processo di enclosure, un nuovo dispositivo di esclusione.

OLTRE A SOPPERIRE all’urbanità assente – «urbanità» è, scrive Cellamare, un bisogno che si caratterizza «necessariamente a livello collettivo» – queste forme di autorganizzazione sono capaci di produrre cultura politica («anche non intenzionale e formale») agendo sul quotidiano: «i processi di riappropriazione del quotidiano diventano oggi, nelle società del controllo, il vero terreno del conflitto». Ma anche, ci sentiamo di aggiungere, il vero terreno della sospensione del tempo della vita: queste «spazialità di scorcio» sono terreno per la semina del buen vivir.

Cellamare ordina la moltitudine delle autogestioni romane in un casellario tematico, cangiante tuttavia quanto l’oggetto osservato, che consente una rassegna delle singole realtà: spazi verdi (giardino di Castruccio, borgata Finocchio ecc.); lavoro (Oz, Scup! ecc.); autogestione abitativa (Porto fluviale, SpinTime ecc.); spazi collettivi e attrezzature nei Peep (Tor più Bella, Cerquette grandi ecc.); cultura politica (Esc, Comune-Info ecc.)
Il ragionamento si conclude sul valore politico, nelle città del neoliberismo, di queste fratture dove germinano mondi possibili. Del «magma di significati della società istituente» (Castoriadis, nel testo) Cellamare sottolinea la potenzialità generativa di nuove forme del diritto verso una «città come creatura della comunità» (Frug). Qui, il riferimento alle esperienze municipali, alla città pre-moderna, apre un immaginario che l’autore lascia solo intendere.

QUELLO DI UNA CITTÀ che – crogiuolo di forze, stimoli, tentativi e aggiustamenti – sta producendo il proprio «genere» politico con la messa al lavoro di ripetizioni e tramandi, con continue varianti da una esperienza all’altra, contaminati e immersi nell’incontrollabile circolazione di pratiche. Un quotidiano che racchiude i «fiori del parlare» (come in altra sede scrive Gianni Celati) e le «belle risposte» alla tragedia dell’abitare urbano.