Molti artisti, fotografi, condividono con alcuni teologi un certo ottimismo: non è Dio, ma la coscienza a vigilare su di noi, la coscienza costituisce il primo guardiano, l’esigenza che orienta il nostro agire verso il bene.
In questi ultimi anni, i festival di fotografia (esattamente come gli altri) sono state spesso occasioni mancate, o ripetitive. Pare che nessuno abbia voglia di correre rischi: invitati prevedibili, sempre gli stessi. E così, per fuggire dal morbo della fama, la ricerca di spazi laterali nei quali fare confluire un’arte che rivendichi il diritto di essere tale diventa ancora più urgente.

IL FESTIVAL di Castelnuovo (borgo medioevale alle porte di Roma) è giunto alla sua settima edizione declinando quest’anno il tema Paesaggi in movimento (dal 28 settembre al 6 ottobre, nella cinquecentesca Rocca Colonna, con incontri, mostre e letture portfolio).
A Castelnuovo si possono trovare le immagini di una frontiera – solo apparentemente invisibile – che attraversa campi, strade, sentieri, fiumi e laghi, tra Irlanda del Nord e Repubblica d’Irlanda, fotografata dall’esordiente Agnese Sbaffi; si possono trovare le immagini di Antonio Biasucci, che insegna la sua tecnica fotografica a un uomo, rifugiato curdo, Rouaf, affinché realizzi una serie di ritratti che «avevano le mie luci, i miei tagli»: un rifugiato tra altri rifugiati: «lo si avvertiva».
A Castelnuovo si possono trovare i disegni di Armin Greder a rappresentare «la tracotanza dei consumatori e la tristezza dei consumati», o il racconto fotografico di Chris Warde-Jones, su un tema che sembra un dettaglio insignificante e quotidiano, il servizio di consegna «pacchi pranzo» (tiffin boxes), pasti caldi portati da oltre 5.000 dabbawala (portatori di pacchi) a Mumbai. Ogni portatore guadagna circa 100 euro al mese, ogni consegna costa all’impiegato che ordina il pranzo circa 80 centesimi. Margine di errore? Una consegna sbagliata ogni 6 milioni.
E sempre a Castelnuovo si possono trovare memorie private rielaborate e ricontestualizzate in una storia universale, che tracimano dal privato al pubblico, come nell’installazione di Franco Cenci: «Una serie di piccoli ritratti di corpi ’volatili’, un trompe-l’oeil di una panca in una sala d’attesa, un albero di ricordi, un ripiano con disegni e cartoline di viaggi: la migrazione unisce in un’iperbole i viaggi cinquecenteschi dei coloni, quelli contemporanei dei clandestini, i volteggi degli uccelli e i trasferimenti estivi della mia infanzia». Nonché fotoreportage sociali o d’architettura che ricordino allo spettatore che il punto di vista è una faccenda personale, nessuna verità oggettiva da vendere, una dichiarazione, più volte ripetuta, per ordine di etica morale, un’etica che necessita – come insegna Greta Thunberg – di essere sempre più agita: non si spacciano verità accompagnate da fotografie, non siamo politici.

ANCHE PERCHÉ a ben guardare, ciò che scrive Alicja Gzowska (docente presso l’Institute of Art History dell’Università di Varsavia), per il lavoro di Michał Szlaga, si può mutuare a quasi ogni singolo lavoro, ogni singolo anfratto d’Italia, dallo stato di rovina a un momento architettonico di transizione «Oggetti desolati con riquadri in frantumi trasformati in cumuli di macerie da strumenti sofisticati, diventano, insieme agli alberi sradicati, una rappresentazione spaziale della perdita, una forma fisica di tragedia».
Forse a Castelnuovo, Elisabetta Portoghese e il suo comitato scientifico desiderano mostrarci uno «stato dell’arte» che – attraverso lo scandagliamento infinito della nostra ormai irriducibile multidimensionalità – rimandi a una moralità (in senso filosofico) impegnativa, e di conseguenza esaltante, non di pura acquiescenza ai luoghi comuni, una verità finalmente riportata a uno sforzo morale, lo sforzo richiesto a ogni singolo abitante della Terra.