Era ancora luglio quando la camera dei deputati decise di occuparsi con procedura d’urgenza della riforma della legge elettorale. Così per ottobre, lo scorso ottobre, si sarebbe potuta votare una legge in grado di pensionare il Porcellum. Anche il presidente del Consiglio Letta se ne diceva convinto, congratulandosi per l’accelerazione decisa a Montecitorio. Poi, nel giro di pochi giorni, il senato studiò le contromosse. In un pomeriggio approvò la stessa procedura d’urgenza sull’identica materia, e immediatamente la legge elettorale fu «incardinata» a palazzo Madama con una seduta di un quarto d’ora della commissione. Sono passati quattro mesi, il risultato è che i senatori ieri sera hanno dovuto prendere atto di non essere riusciti neanche a far partire la discussione. Non è stato votato nemmeno un ordine del giorno. Così oggi, nel vuoto della politica che data almeno dal 2006 (quando dopo la prima prova la legge elettorale fu riconosciuta come «una porcata»), del Porcellum si occuperà la Corte Costituzionale. Che secondo le previsioni concederà al parlamento un altro mese prima di intervenire.

Decidendo ieri sera di far saltare anche la riunione convocata in extremis per approvare almeno un ordine del giorno favorevole al ritorno al sistema elettorale precedente, il Mattarellum, il senato ha praticamente alzato bandiera bianca. Nella maggioranza ha prevalso la volontà di tutelare il governo e nello specifico la piccola nuova formazione di Alfano. Renzi ricorda sempre che il Pd ha 300 deputati e il Nuovo centro destra solo 30, ma all’atto pratico i 29 senatori di Alfano pesano quando tutto il partito democratico, visto che sono decisivi per la fiducia.

Con la fiducia Letta dovrà misurarsi ancora mercoledì prossimo, lo ha concordato ieri con Napolitano. Al termine di un incontro al Quirinale, presidente della Repubblica e del Consiglio hanno spiegato che un nuovo passaggio parlamentare segnerà «la discontinuità tra la vecchia e la nuova maggioranza» così come richiesto da Forza Italia. I berlusconiani intendono sottolineare la fine delle larghe intese. Il dibattito sulla fiducia sarà «sollecito» ma comunque dopo le primarie del Pd, il giorno 11. Prima alla camera e poi al senato, lì dove il governo ha adesso solo sette voti di sicurezza (senatori a vita esclusi).

Il ritorno del Mattarellum, un sistema basato sui collegi uninominali, tantopiù se corretto con un sovrappiù di maggioritario come immagina Renzi, non è assolutamente accettabile da Alfano. Ieri lo stop all’ordine del giorno è stato chiesto dal gruppo del Pd – il capogruppo Zanda ha precisato che «la formazione del nuovo gruppo di centrodestra e il congresso del Pd non consentono un dibattito costruttivo» -, dagli alfaniani e dal capogruppo di Scelta civica. Un senatore vicino a Casini che è stato subito smentito dai rappresentanti del partito in commissione, entrambi montiani, che invece accetterebbero anche il Mattarellum pur di cambiare la legge. Le richieste di Alfano peraltro non sono ancora finite, perché i post-berlusconiani non vogliono nemmeno che, preso atto del fallimento del senato, sia d’ora in poi la camera a occuparsi della legge elettorale. Lo chiedono in molti, in primis Sel e i renziani, ma a Montecitorio il gruppo del Nuovo centrodestra non è decisivo e non è in condizione di bloccare la maggioranza.

E così il gioco dei rinvii potrebbe essere solo all’inizio. La Consulta, ammettendo i quesiti sollevati dalla Cassazione ma prendendosi il tempo necessario per discutere le questioni del premio di maggioranza e delle liste bloccate – piene di ricadute sul sistema politico e persino sul parlamento in carica – in qualche modo aspetterebbe le camere. Le camere, paralizzate dall’esigenza di non nuocere al governo, potrebbero finire col rifugiarsi dietro una doverosa attesa delle decisioni della Corte. Il governo, in realtà «mandante» della paralisi, continuerebbe a minacciare un suo disegno di legge in materia. Mettendolo, però, sul binario morto delle riforme costituzionali.