Le Alpi sono le montagne più umanizzate del mondo: il processo fu lento e cominciò – nel 1786 – con la scalata alla vetta del Monte Bianco da parte di Jacques Balmat e Michel-Gabriel Paccard. Da allora il paesaggio alpino ha raccolto un numero tale di storie e rappresentazioni da farne un luogo geografico particolarissimo e per molti aspetti un’invenzione. Alla sua scoperta hanno concorso in egual misura la scienza, l’arte e la letteratura che nei secoli – dopo avere sperimentato l’assoluta estraneità del mondo antico – ne hanno ricercato ragioni materiali e significati simbolici, sempre in trasformazione fino all’arrivo della modernità, che ha conosciuto i decenni del mutamento più radicale.

Ogni indagine sulle Alpi non può iniziare se non dai limiti geografici, ossia dalla loro «grandezza» che oggi le vede divise in occidentali e orientali. Nel 1911 Georg Simmel evidenziava in un suo scritto interessante il nesso tra le forme naturali e la loro trasposizione nelle opere d’arte, ponendo in questione la «grandezza» come fattore che conta e regola l’impressione estetica del visibile. Nell’immaginare una «scala di forme» il filosofo tedesco mette in alto la figura umana e all’estremo opposto proprio la «massa schiacciante» delle Alpi.

Per Simmel nessun artista riuscì mai a ritrarre quella loro «materialità informe» che procura «un’impressione satura di agitazione e di pace allo stesso tempo» e che racchiude più di ogni altro paesaggio «il mistero del creato». Forse proprio il loro essere «al di là di ogni forma», ha fatto sì che le Alpi attraessero, nel corso dei decenni, una moltitudine di soggetti intenti, tra i ghiacciai e le irregolari conformazioni di rocce e valli, a misurarsi, se non tutti con il Trascendente di cui parla Simmel, più prosaicamente con l’altro da sé, in ogni caso con la condizione atemporale del paesaggio alpino che da sempre ha sollecitato gli uomini.

Delle lontane e complesse vicende che hanno le Alpi come sfondo e dell’insieme di temi sociali e culturali concentrati in alta quota tratta il saggio di Antonio De Rossi, La costruzione delle Alpi (1773 – 1914) (Donzelli, pp. 420, euro 38,00) primo risultato di un lavoro che ha avuto inizio con la pubblicazione di Architettura alpina moderna in Piemonte e Valle d’Aosta (Allemandi, 2005) e proseguirà con un secondo volume che esaminerà il contemporaneo uso e consumo delle patrimonio alpino. Attraverso una meticolosa ricognizione della smisurata produzione di testi e descrizioni grafiche delle Alpi occidentali, l’autore ci consegna un’analisi aggiornata, e la più ricca, sul paesaggio alpestre, riformulando il contributo di Philippe Joutard, che nell’Invention du Mont Blanc (Parigi, 1986) per primo comprese le origini storiche, tra XVIII e XIX secolo, della montagna quale «polo idealtipico» del moderno e del sopraggiungere di una diversa percezione estetica della natura e del suo consumo.

Non caso, De Rossi comincia il suo viaggio prendendo atto di come il paesaggio alpino sia mutato dai tempi dei voyages del dotto ginevrino Horace-Bénédict de Sussurre o degli artisti Jean-Antoine Linck o Carl Hackert. Basta raggiungere Chamonix per accorgersi, come l’autore ci riferisce, che il ghiacciaio Mer de Glace non esiste più: di conseguenza, se «oggi la superficie spenta e opaca dei resti del ghiacciaio sembra riflettere il nulla» vuol dire che bisogna riordinare il materiale storiografico giunto fino a noi e riformulare nuove strategie d’intervento per la montagna. Secondo la tesi di De Rossi bisognerebbe produrre una storia «costruttiva» delle Alpi invece di seguire lo sviluppo lineare dell’idea di un «paesaggio-oggetto», che com’è noto ha le sue origini nella concezione illuministica di conquista delle vette alpine.

Ecco allora definirsi una storia «fisica» delle Alpi che è al tempo stesso storia culturale e delle idee. De Rossi parte dal letterario sentiment de la nature mutuato da Jean-Jacques Rousseau, che corre parallelo alle pratiche di scienziati ancora dentro i cabinets des naturalistes, per arrivare alle prime spedizioni in vetta al Bianco, che restituiranno le Alpi come un enorme edificio in rovina dove è inscritta la storia del mondo e del quale John Cozens e William Turner si appresteranno a coglierne il fascino evocativo. Il viaggio in alta quota modella uno spazio che continuerà a essere eterogeneo, ma che una esuberante produzione iconografia e letteraria tenderà di volta in volta a ricondurre, a cavallo tra Otto e Novecento, alle regole imposte dal cambiamento della sensibilità estetica e del gusto.

Dalle poetiche del sublime romantico di Shelley e di Byron, intrecciate con gli statuti scientifici della nascente geologia, si passa al pittoresco che umanizza il paesaggio alpino secondo gli schemi dei pittori inglesi, per esempio James Cockburn, e le interpretazioni storico-politiche degli scrittori savoiardi, da Xavier De Maistre a Massimo d’Azeglio.

In ogni caso il paesaggio alpestre è uno «spazio privilegiato – scrive De Rossi – in grado di suscitare sensazioni inedite», dove la natura, presentandosi nelle forme di ogni visibile contrasto, sembra confermare – ancora con Simmel – che «la vita è la relatività continua degli opposti». Il tema del contrasto ricorre spesso nell’intero saggio grazie al suo fondamentale valore di «dispositivo» sia interpretativo sia costruttivo del territorio alpino. Era già stato impiegato da Rosario Assunto – che evocava la fusione di «grazioso e sublime» – e da Enrico Castelnuovo – che parlava di relazione tra «medioevo e montagna» in Alpi gotiche – prima ancora che De Rossi ne individuasse i due archetipi nel treno di montagna (chemin de fer) e nello châlet suisse, due esempi della contrapposizione e della complementarietà tra moderno e arcaico.

All’icona dello châlet, una sorta di microcosmo alpino e un oggetto fondativo del swiss style, è dedicato un importante capitolo capace di farci comprendere la irriducibile forza di un’immagine stereotipata che sopravvive alla modernità architettonica nella sua configurazione astorica e naturalizzante, giungendo inalterata fino a nostri giorni. A differenza di quanto afferma Henry-Russell Hitchcock (e poi Jacques Gubler) la sua genealogia non va ricercata in ambiente anglosassone, né in un artista come Schinkel: per De Rossi l’origine dello châlet è nel giardino pittoresco degli anni ottanta del Settecento, il parco dell’Ermitage d’Arlesheim a Basilea, per esempio, dove, come nei testi di Rousseau, compare quale fondale architettonico. Lo châlet suisse rappresenta «l’aspirazione – scrive De Rossi – alla libertà delle popolazioni alpine» e aggiunge che la sua legittimità non appartiene all’architettura, ma va individuata «nel campo artistico e della morale, nell’esaltazione della montagna come luogo di una civiltà antica e autentica, come passaggio al contempo etico ed estetico da contrapporre alla città».

Tuttavia, come la città anche il paesaggio alpino subisce nell’Ottocento profonde trasformazioni. Con dovizia di esempi De Rossi illustra cosa ha voluto dire «mettere in forma» la geologia alpina. Intese come fossero un’opera d’arte, le Alpi si configurano quale spazio ideale nel quale accordare valori estetici (Ruskin) o verificare tecniche di ricostruzione (Viollet-Le-Duc), ma saranno i nuovi flussi di turisti, i moderni fruitori della montagna, a produrre l’autentica metamorfosi. Un’intera macroregione, quella indagata da De Rossi e costituita dai distretti del Monte Bianco, dell’Oberland bernese compresi i laghi tra Canton Ticino, Piemonte e Lombardia, fino alle valli dei Grigioni e della Valle d’Aosta, sarà trasformata per soddisfare la richiesta turistica: nasceranno così centri termali (villes d’eaux), grand hotel e ville in stile alpino, ma anche l’insieme di infrastrutture ferroviarie, stradali e funicolari realizzate per collegare i centri montani alle città in pianura.

Il processo di «abbellimento» dei centri rurali e di villeggiatura ibrida modelli architettonici urbani che le comunità montane accolgono e rielaborano e che oggi andrebbero diversamente considerate. L’insieme di questi interventi innescati dal turismo e che hanno addomesticato la natura combinando inediti insediamenti, ha determinato per De Rossi il più esteso playground d’Europa: una complessa «trasmutazione fisica tecnologizzata». A conclusione del saggio come nel Tartarino sulle Alpi di Alphonse Daudet viene da chiedersi: è giusto continuare ancora a «dipingere e infiocchettare tutto questo po’ po’ di territorio»