Sono tre racconti di Alice Munro – Soon, Chance e Silence – il punto di partenza per il ventesimo film di Pedro Almodovar, Julieta, un ritorno al melodramma femminile, ma in quella versione più sobria, «rispettabile», a cui il regista di Matador, è ricorso spesso nelle sua opera; una vena del suo cinema non particolarmente ispirata, ma che Almodovar rielabora ormai con maestria impeccabile e su cui ha cementato la sua reputazione di grande autore europeo. Ci chiediamo, però, il senso di metter in concorso a Cannes un film come Julieta, nel 2016, non perché vederlo non sia stato un’esperienza piacevole, ma perché non ci dice niente di nuovo – del cinema o di Almodovar.

Lo schermo è interamente occupato da una stoffa rossa, dietro a cui appare poco dopo Julieta (Emma Suarez), un’elegante cinquantenne che sta preparandosi per un viaggio in Portogallo con il suo amante scrittore (Dario Grandinetti). Dietro all’effervescenza un po’ artificiosa del momento, pesa l’ombra di un passato che si manifesta con prepotenza quando Julieta, fuori per commissioni, incontra una giovane donna che le parla di qualcuno che ha visto recentemente, a Como.

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Improvvisamente e senza spiegazioni, il viaggio in Portogallo viene cancellato, l’amante liquidato e il bell’appartamento moderno in cui l’abbiamo incontrata viene ceduto a favore di un altro, in una parte più vecchia della città, in uno stabile, dove chiaramente lei aveva già vissuto. Il passato, che credeva di aver lasciato indietro per sempre, inghiotte Julieta, e noi con lei. Lo penetriamo, poco a poco, attraverso una lettera, che la donna inizia a scrivere davanti ai frammenti di una fotografia – malamente ricomposta con lo scotch – che la ritrae insieme a una giovane. Sua figlia Antia. E la destinataria della missiva.

La storia di Julieta, e di quella ragazza, inizia 32 anni prima, a bordo di un treno, di notte. Il set è reso hitchockiano dall’apparizione/sparizione di un passeggero con la barba, ma anche dal fatto che, vestita in blu elettrico sul velluto rosso che fodera lo scompartimento, troviamo una Julieta completamente diversa (qui è interpretata da Adriana Ugarte). Non e solo più giovane: è piena di energia, di forza, di curiosità. I capelli biondi, dritti in aria. Nulla a che vedere con la donna spenta di fronte alla lettera. Su quel treno, scrive, ha conosciuto due uomini – un signore grigio che ha cercato invano di attaccare bottone, e un bel pescatore con cui ha trascorso una notte di passione, dopo che lui le ha confidato di essere sposato con una donna in coma da anni… Una morte risulterà dal primo incontro, una vita dall’altro.

Julieta sta finendo la sua supplenza di letteratura antica in un liceo quando, mesi dopo, la arriva una lettera del pescatore. «Non riesco a dimenticarti». Quando Julieta lo raggiunge, si è appena concluso il funerale di sua moglie, e lei è già incinta.

Con l’aiuto delle costruzioni perfette e dolcemente implacabili di Munro, Almodovar gioca con gli scarti/scherzi del destino. Le piccole decisioni che risultano in catastrofi, i momenti che uno vorrebbe riprendersi ma non può. Il peso delle cose che non si sono mai chieste, delle conversazioni non avvenute. Causa una cameriera indiscreta (Rossy Palma), una lite e una mareggiata, Julieta si ritrova vedova, con una figlia che adora e che, essendo più matura di sua madre, si prende cura di lei. Però Antia un giorno scompare per sempre, senza spiegarle perché. Julieta è il doloroso percorso per ricostruire quel puzzle.