Donald Trump ha imposto senza mezzi termini una riedizione della dottrina Monroe, ovvero che l’America latina è da considerarsi il patio trasero degli Usa, dove il gigante del Nord detta legge e gli alleati-vassalli ubbidiscono. La domanda che accomuna i principali leader latinoamericani è come la vittoria di Joe Biden potrà cambiare questa situazione. II presidenti di Cuba e Venezuela – i due principali bersagli di Trump in America latina – si augurano che la prossima presidenza del leader democratico possa aprire una nuova tappa, basata sul dialogo e non sulla politica di ingerenza volta a abbattere i governi eletti nei due paesi.

IL PRIMO, Miguel Díaz-Canel, in modo più politico e ribadendo la orgogliosa difesa della sovranità dell’isola nelle sue scelte politiche, ha scritto su Twitter: «Riconosciamo che, nelle sue elezioni presidenziali, il popolo degli Usa ha optato per una nuova linea. Crediamo nella possibilità di una relazione bilaterale costruttiva e rispettosa delle differenze». Il secondo, Nicolás Maduro, ha rivolto esplicite felicitazioni al presidente eletto Biden e si è detto disposto a «un dialogo» per raggiungere «un’intesa con il popolo e il governo» degli Stati uniti.

LA CAUTELA DEL MESSAGGIO del presidente cubano non nasconde che il vertice politico dell’isola ha tirato un gran sospiro di sollievo. Nel corso della sua presidenza, Trump ha messo in atto 150 misure e sanzioni contro Cuba che, secondo il quotidiano del Pc Granma, sono costate «cinque miliardi di dollari» di perdite. Nella sua ventilata foga di «liberare il popolo di Cuba» dal supposto giogo del «regime comunista» anche in concomitanza dei drammatici effetti del Covid-19, The Donald ha causato – e causa – enormi sofferenze ai cubani che pretende di salvare e ha pesantemente concorso a portare l’economia dell’isola sull’orlo del collasso.

Per questa ragione le presidenziali sono state seguite con un interesse senza precedenti dalla gente comune oltre che dal governo. Gran parte dei cubani ricorda quei giorni di apertura economica e respiro politico quando nel 2014 i presidenti Barack Obama e Raúl Castro decisero di voltar pagina e di ristabilire le relazioni diplomatiche.

LE DICHIARAZIONI fatte da Biden pochi giorni prima delle elezioni soffiano sulle ceneri di questa nostalgia: «La politica di Trump verso Cuba è stata un totale fallimento», ha affermato il nuovo presidente eletto, che si è detto disposto a riprendere la politica di apertura di Obama, iniziando con l’eliminare i limiti imposti da Trump alle rimesse dei cubanoamericani, le restrizioni ai viaggi nell’isola e la concessione di visti ai cittadini cubani. Biden però ha ribadito che intende «difendere i diritti umani a Cuba, come l’ho fatto quando ero vicepresidente».

Queste concessioni sono di fatto un’arma a doppio taglio agitata nei confronti del governo cubano. Che giustifica la prudenza di Díaz-Canel. Da un lato, una politica di aperture degli Usa è – come minimo – assai importante nel momento un cui il governo cubano si appresta a lanciare una serie di riforme economiche per aumentare la capacità produttiva dell’isola e ridurre le importazioni, assieme al “Nuovo ordine monetario” che implica l’eliminazione della doppia moneta circolante nell’isola. Gli investimenti esteri – e con essi le relazioni con Fmi e Banco mondiale – costituiscono una parte essenziale di tali riforme e non possono prescindere dalle relazioni con Washington.

MA IL VERTICE POLITICO cubano non è disposto a mettere sull’altro piatto della bilancia di future aperture economiche e politiche un’ingerenza nella propria politica interna. E neppure di dare l’impressione – anche a livello interno – che lo sviluppo economico dell’isola dipenda dalle elezioni di un altro paese, come se l’isola fosse uno dei tanti Stati vassalli statunitensi dell’America latina.

Il subcontinente latinoamericano non è una delle priorità del presidente eletto. Questo Biden lo ha messo ben in chiaro. Però durante la presidenza di Obama, l’allora vicepresidente ha avuto un ruolo importante nelle politica estera, specie in America latina. Vi è dunque da supporre che – pur tendendo conto della differenza di situazione rispetto a quattro anni fa – vi sarà una buona quota di continuismo nelle linee guida del leader democratico. Il Venezuela costituirà il problema più spinoso. Quanto dipenderà anche dall’esito – sempre che non vi sia un pericoloso colpo di coda di Trump – delle elezioni politiche del 6 dicembre.

Colombia – anche durante la campagna elettorale, Biden ha ribadito la fiducia al presidente Iván Duque nonostante l’impressionante continuità di massacri di leader sociali – e Messico saranno i principali partner. Con quest’ultimo anche per affrontare la questione dell’immigrazione dai paesi del Centro America.

IL BRASILE del presidente Bolsonaro – fanatico fan di Trump – rappresenta la maggiore incognita, visto il peso del gigante sudamericano nella politica di contenimento della penetrazione cinese in America latina che Biden dovrà affrontare. Le prossime elezioni comunali (15 dicembre) serviranno a chiarire gli equilibri di forze in Brasile