Avevamo lasciato Almaviva nelle aule dei tribunali a difendersi dalle accuse di aver illegittimamente compiuto il più grande licenziamento collettivo degli ultimi 35 anni: i 1.666 lavoratori di Roma a fine 2016.
La ritroviamo anni dopo accusata dai sindacati confederali di voler lasciare l’Italia, almeno nel settore call center.

Sì, perché la famiglia romana Tripi – Almaviva sono le iniziali dei figli del capostipite Alberto – ha deciso di seguire le orme degli Agnelli e buttarsi nella finanza. Niente più call center, troppo poco remunerativi.
Tre indizi fanno una prova.

Da mesi si susseguono le notizie di richieste di cassa integrazione su molte commesse gestite da Almaviva in Sicilia e Calabria. Dopo l’addio al call center Alitalia e la mancata proposta per proseguire con Ita a ottobre, tocca ai servizi di assistenza di due delle più grandi compagnie telefoniche: Tim e WindTre. Si tratta in entrambi casi di bandi di gestione Almaviva scaduti. Su Wind operano circa 600 lavoratori fra Milano e Palermo. Su Sicilia e Calabria invece si sentono già gli effetti della fine della commessa Tim del numero 187: da ieri sono in cassa integrazione 450 lavoratori fra Palermo e a Rende (Cosenza).

IL 27 GENNAIO INVECE è arrivato l’annuncio della nascita di ReActive, nuova società del gruppo Almaviva. «Un nuovo profilo societario che risponde alla scelta di forte focalizzazione sull’ambito finance, valorizzando competenze e assetto produttivo per cogliere le opportunità proposte da un mercato in profonda e rapida evoluzione», ha dichiarato l’amministratore delegato di Almaviva Marco Tripi.
Ieri però i sindacati hanno deciso di attaccare. Con una nota molto dura, denunciando «la oramai chiara intenzione di Almaviva Contact di dismettere le attività in Italia nel settore dei contact center», scrivono in una nota unitaria Slc Cgil, Fistel Cisl, Uilcom.

SONO 2500 I POSTI A RISCHIO di lavoratrici e lavoratori «tra Palermo, Catania, Rende, Napoli, Roma e Milano, che operano su tutta una serie di attività scadute o in scadenza, i cui cambi di appalto stanno evidenziando problemi evidenti nell’applicazione delle clausole sociali (la tutela legale che prevede il passaggio dei lavoratori nel nuovo appalto, ndr)», sottolineano i sindacati, citando anche le altre commesse attuali: Vodafone più quelle pubbliche: Gse e Trenitalia e il numero verde 1500 istituito per la gestione dell’emergenza Covid tramite il ministero della Salute.

PER «METTERE IN SICUREZZA il settore, le segreterie nazionali di Slc Cgil, Fistel Cisl, Uilcom Uil assiene alle Rsu hanno proclamato lo stato di agitazione dei lavoratori Almaviva Contact, non escludendo ulteriori iniziative qualora non dovesse giungere, entro breve, una convocazione da parte dei ministeri competenti», annunciano i sindacati.

Contattata dal manifesto, Almaviva non ha voluto commentare il comunicato dei sindacati.

Almaviva è – o era – certamente l’azienda leader del settore in Italia. L’elenco di quelle che sono in difficoltà o hanno delocalizzato è però lunga. Se Covisian che ha vinto la gara Ita ex Alitalia si è piegata ai sindacati garantendo la clausola sociale per 537 addetti solo dopo una lunga trattativa al ministero del Lavoro, in Calabria c’è già stata la lunga vertenza Abramo, dichiarata recentemente in stato di insolvenza, quella Comdata, legata all’internalizzazione dei servizi di Inps, la chiusura di Yope e la lunghissima vertenza di Infocontact.

«OLTRE IL DRAMMA dei lavoratori Almaviva, il problema del settore call center è più generale – spiega il segretario nazionale della Slc Cgil Riccardo Saccone – . La norma che vieta le delocalizzazioni esiste ma è facilmente aggirabile e il settore è in grande crisi anche a causa delle commesse pubbliche gestite da Consip con il solo interesse di spuntare il prezzo più basso che portano quasi sempre ad assegnazioni a cooperative sociali avvantaggiate da un costo del lavoro più basso. Per tutte queste ragioni noi proponiamo con tavolo con il governo per avere garanzie maggiori nella gestione delle clausole sociali nei cambi di appalto con piani di formazione per il personale sui servizi digitali e di prevedere forme di premialità reali, come un credito di imposta, alle aziende che riportano commesse in Italia dopo aver delocalizzato», chiude Saccone.