Di chi è la responsabilità del più grande licenziamento collettivo degli ultimi 25 anni in Italia? I 1.666 lavoratori di Almaviva Contact di Roma che il 22 dicembre scorso hanno ricevuto le lettere di benservito dall’azienda italiana leader dei call center vogliono vederci chiaro.

La maggior parte di loro ha contattato un legale e le cause al tribunale del Lavoro di Roma sono in corso. Se una sentenza è già arrivata e – sostanzialmente – dà la colpa dei licenziamenti ai sindacati che decisero di non firmare il verbale di accordo che riduceva il salario di circa il 17% bloccando scatti di anzianità e Tfr e prevedeva controlli a distanza in deroga perfino al Jobs Act – sottoscritto invece in extremis dagli Rsu di Napoli -, ora un ricorso al giudice del lavoro, presentato dallo studio legale Panici-Guglielmi su mandato di ben 250 lavoratori licenziati a Roma, chiama in causa l’azienda e il governo accusando l’allora amministratore delegato (e oggi presidente di Almaviva Contact) Andrea Antonelli e la viceministra Teresa Bellanova di concorso in estorsione proprio per quello che accadde nella trattativa, specie in quell’ultima notte al ministero della Sviluppo economico alla scadenza della procedura di licenziamento collettivo.

Per entrambi, parallelamente al ricorso, è stata presentata una denuncia penale – da parte dell’avvocato Cesare Antetomaso e degli avvocati del lavoro Pier Luigi Panici e Carlo Guglielmi – alla Procura di Roma sottoscritta da una quindicina di Rsu Almaviva Roma per «tentata estorsione».

LE 49 PAGINE DEL ricorso spiegano come dal 2011 Almaviva – il colosso nato nel 2005 assorbendo il call center Atesia e il suo modello di lavoro precario stile Tutta la vita davanti – sia andata avanti a colpi di tagli al costo del lavoro; come le commesse e gli appalti vinti (i privati Tim e Fiat, e i moltissimi partecipati o pubblici come Eni, Inps, Inail, Inpdap, Fs) fossero spostati da Roma verso altre sedi (Napoli, Palermo, Milano, Rende) in totale spregio delle professionalità e della dignità dei lavoratori della storica sede: «Nessuna delle commesse Almaviva ivi lavorate ha avuto un solo minuto di interruzione, le chiamate sono state girate sulle altre sedi semplicemente spingendo un bottone», favorendo una delocalizzazione che la tecnologia permette praticamente a costi zero.

Insomma: «un inedito assoluto», «il più grande licenziamento di massa a Roma è stato intimato non per una crisi produttiva, per riduzione o eliminazione di commesse (che sono addirittura aumentate, come quella Enasarco o Gse vinta appena dopo il licenziamento, ndr) bensì unicamente per il rifiuto dei lavoratori di accettare la richiesta aziendale di riduzione della loro retribuzione già prossima alla soglia di povertà»: come denunciato dagli addetti nei giorni della vertenza, passando da 600 a 500 euro al mese la maggior parte dei licenziati che lavoravano part time sarebbe scesa sotto soglia 8 mila euro (incapienti) dovendo dunque rinunciare perfino al bonus degli 80 euro.

Perché è stata penalizzata proprio Roma?

La risposta riporta al tema centrale del costo del lavoro: i lavoratori assunti qui rispettavano i livelli contrattuali degli addetti di call center (III livello iniziale) mentre nelle altre sedi venivano assunti al II livello o in somministrazione o addirittura in tirocinio, motivando poi la «minor competitività» della sede romana «per via di un alto costo del lavoro rispetto al contesto competitivo generale».

LE TRE PROCEDURE di licenziamento collettivo aperte in meno di 10 mesi (18 dicembre 2015, 21 marzo 2016, 5 ottobre 2016) si sono succedute portando alle «progressive esclusioni» delle altre sedi: Catania, Milano e Rende salvate perché lì erano stati assunti interinali e dunque non si poteva sostenere che ci fosse bisogno di licenziare; Palermo salvata dopo i finanziamenti regionali ricevuti; Napoli dopo che «la relativa rappresentanza sindacale si era piegata al ricatto occupazionale (rectius: estorsione) al contrario di quanto fatto dai romani», recita il ricorso al giudice del lavoro.

In questo quadro, il comportamento del governo nel condurre e concludere l’ultima procedura risulta decisivo.

A parte i vizi formali di un accordo firmato il 22 dicembre quando i 75 giorni previsti scadevano il 21 dicembre – che diventa vizio sostanziale in procedure del genere – e il diniego rivolto agli Rsu romani verso la concessione di un giorno di proroga per tenere le assemblee dei lavoratori per sottoporgli il testo dell’accordo firmato invece dagli Rsu napoletani, le testimonianze dei rappresentanti romani gettano un’ombra sui comportamenti della viceministra Teresa Bellanova, lodata invece per la firma unitaria dell’accordo di maggio 2016 che aveva evitato 2.500 licenziamenti.

Dopo aver tenuto le Rsu in una sala mentre discuteva con i vertici sindacali nazionali e aver rifiutato di concedere tempo per le assemblee illustrative dell’intesa, sentito il diniego dei delegati romani a firmare, Bellanova li accusava di «aver abdicato al ruolo di sindacalisti» e di essere «irresponsabili nei confronti dei lavoratori rappresentati» cercando infine di convincere i lavoratori presenti sotto il ministero perché «si rivoltassero per far cambiare idea agli Rsu».

L’IMPORTANZA DELLA causa intentata – in cui si chiede la nullità dei licenziamenti – si lega strettamente al futuro dell’intero settore dei call center in Italia.

Dopo l’intesa sottoscritta per la sede di Napoli, infatti, «le altre aziende stanno contattando le organizzazioni sindacali firmatarie dell’accordo accusandole di essere state rese non più competitive da quell’accordo (…) e chiedendo la stessa contrattazione con la minaccia, in caso contrario, di procedere anche esse a licenziamenti di massa addebitandone la colpa a Cgil, Cisl e Uil».

Questo «inedito assoluto» di Almaviva rischia dunque di diventare un modello per il prossimo contratto nazionale.