Altra sonora sconfitta giudiziaria per Almaviva, la società leader nei call center in Italia. L’opposizione fatta dall’azienda alla sentenza di reintegro per 153 dipendenti della sede di Roma – chiusa a dicembre 2016 con il licenziamento di tutti i 1.666 lavoratori, il più grande licenziamento colletivo degli ultimi 25 anni – è stata rigettata.
Il fatto è ancora più rilevante perché a firmare la sentenza è la giudice Donatella Casari che poche settimane fa ha rigettato la richiesta di reintegro di circa 550 altri lavoratori.
L’azienda si era opposta al reintegro disposto dal giudice Bonassisi il 16 novembre 2017 sostenendo che la decisione di chiudere la sede di Roma fosse legittima, posizione già assunta dalla stessa giudice Casari nei provvedimenti precedenti.
Ma in questa occasione la giudice ha osservato come la legge che regola i licenziamenti collettivi (la 223 del 1991) prevede che l’ambito di scelta debba essere considerato rispetto al complesso delle mansioni fungibili e quindi i lavoratori romani dovessero essere valutati per altre sedi. Altre sedi su cui poi Almaviva ha spostato commesse di call center prima espletate a Roma. Su questo punto la ricostruzione di quanto accaduto è molto dettagliata. Le commesse romane – «i call center di Eni, Trenitalia, Inps, Inail, Equitalia, Regione Toscana, Fiat Var» – sono state spostate su altre sedi: in particolare per quella più grande – Eni – «l’attività che svolgevano i due terzi del personale di Roma è transitata sulla sede di Milano: nei quattro mesi all’inizio del 2017 coincidenti con la necessaria formazione è stata supplita da lavoratori in somministrazione». «Almeno 100 operatori full time equivalent romani avrebbe potuto essere utilmente trasferito a Milano», scrive la giudice. «Dal che la conclusione che per almeno 100 operatori full time l’esubero a dicembre 2016 in realtà non sussisteva».
L’unica alternativa al licenziamento fu la soluzione prospettata di 75 posti a Rende (Cosenza) ma comunque «accompagnato da ulteriori rinunce a diritti (17 per cento del salario, Tfr, controllo a distanza, ndr) in ipotesi acquisiti in corso di rapporto».
Tutto questo porta dunque la giudice Casati alla «conferma dell’ordinanza impugnata seppur in ragione di motivazione parzialmente diversa». I 153 reintegrati non dovranno quindi restituire il risarcimento percepito – salari di due anni più contributi – pari a circa 3 milioni.
«La nuova pronuncia – spiega l’avvocato dei 153 reintegrati Pier Luigi Panici – stabilisce che Almaviva ha messo all’asta i posti di lavoro: solo chi ha accettato la riduzione del salario e dei diritti, chi si offre a minor retribuzione – anche se la retribuzione è di 600 euro e vicina alla soglia di povertà – si salva. Chiudendo la sede di Roma – continua Panici – Almaviva ha, attraverso uno strumento lecito, perseguito il fine illecito della riduzione della retribuzione. E ha dichiarato il falso perché il personale non è stato ridotto visto che ha assunto lavoratori somministrati a Milano con retribuzioni anch’esse inferiori».
La vicenda giudiziaria non è comunque conclusa. «Questi lavoratori reintegrati hanno subito 3 trasferimenti a Catania: due annullati dal tribunale, l’ultimo revocato dall’azienda in attesa di questo pronunciamento. La soluzione a questo problema è molto semplice: riaprire a Roma con le commesse della sede di Roma», chiude Panici.
L’azienda, contattata dal manifesto, non ha voluto commentare la sentenza.