Almaviva a Roma è aperta ed è perfino sotto organico. Questa la motivazione principale con cui il collegio d’appello del tribunale di Roma ha accolto il reclamo di 144 lavoratori reintegrati lo scorso 16 novembre ma subito trasferiti dall’azienda a Catania.
Per i tre giudici i lavoratori sono stati licenziati illegittimamente «per il rifiuto di accettare riduzioni retributive» – il taglio del salario accettato invece dai colleghi di Napoli che portò al licenziamento di tutti i 1.666 operatori del call center di Roma – e per l’articolo 36 della Costituzione coi loro «salari prossimi alla soglia di povertà» – tra gli 800 e 1.300 euro lordi – il trasferimento a Catania sarebbe «un’irrimediabile lesione del diritto ad una esistenza libera e dignitosa».
La vicenda è complessa e si trascina da quasi un anno e mezzo. Proviamo a riassumerla: il 27 dicembre 2016 la procedura di licenziamento collettivo decisa da Almaviva per oltre 2.500 lavoratori si conclude al ministero dello Sviluppo con un accordo sulla sede di Napoli con un taglio del 20 per cento del salario e i controllo a distanza e con un «mancato accordo» – nonostante le pressioni della viceministra Teresa Bellanova, per questo denunciata dai rappresentati sindacali per tentata estorsione – sulla sede di Roma. Gran parte dei 1.666 licenziati ha fatto causa e 153 di questi – difesi dallo studio Panici-Guglielmi – si sono visti riconoscere il reintegro per licenziamento illegittimo lo scorso novembre. Il giorno dopo la doccia fredda: l’azienda intimava a tutti di presentarsi entro pochi giorni a Misterbianco (Catania), «l’unica sede che per consistenza e situazione complessiva è in grado di assorbire la relativa forza lavoro», visto che nelle sedi – più vicine – «di Napoli e Palermo il personale è in cig mentre Milano presenta esuberi».
Il ricorso immediato blocca il trasferimento, un giudice dichiara condotta antisindacale la mancata procedura di conciliazione come da contratto nazionale che prevede 20 giorni per tentare un accordo. L’azienda in un secondo momento la applica e il 29 dicembre dispone nuovamente il trasferimento. I lavoratori si oppongono per la seconda volta ma in primo grado il giudice dà ragione all’azienda che addirittura apre un procedimento disciplinare «per assenza ingiustificata per oltre 10 giorni» ad alcuni di loro. Ieri invece l’ordinanza che accoglie il reclamo e dichiara illegittimo il trasferimento.
Nell’ordinanza di 14 pagine si specifica che nella sede di Roma di via di Casal Boccone continuano ad operare – oltre alla direzione generale – due «Business unit» di Almaviva: una di «Ricerche di mercato» portata avanti da soli co.co.co e una «Gse», commessa derivante «dall’acquisizione di un appalto pubblico risalente ad epoca anteriore al licenziamento» per la quale dovrebbero lavorare 116 dipendenti ma al momento ne sono stati riassunti solo 88, con «una scopertura di organico di almeno 31 posizioni» «di pari livello rispetto alla maggior parte dei ricorrenti». In più i tre giudici sottolineano come i circa 25 beneficiari della legge 104 (assistenza a familiari disabili) per la stessa normativa «non possono essere trasferiti senza consenso».
Se l’azienda – contattata dal Manifesto – non ha voluto commentare l’ordinanza, grande soddisfazione è stata espressa dalla Cgil, intervenuta nel ricorso tramite la Slc di Roma e Lazio. «Lo diciamo da tempo, siamo davanti al più grande licenziamento discriminatorio collettivo della storia, ora il nuovo governo deve richiamare Almaviva alle proprie responsabilità facendo riaprire tutta la sede di Roma dando risposta al migliaio di lavoratori che attendono giustizia», spiega il segretario generale Cgil di Roma Michele Azzola.
«I giudici hanno dimostrato come esista un’attività reale di Almaviva a Roma, addirittura sotto organico – spiega l’avvocato Pier Luigi Panici – si tratta di un principio che nei prossimi giudizi di merito sarà considerato: le commesse spostate devono tornare a Roma, l’ordinanza lo auspica parlando di potere delle parti sociali».