Mentre per il secondo giorno consecutivo si celebra anche oggi in tutti gli istituti italiani la Giornata nazionale per la sicurezza nelle scuole, il rapporto di Legambiente che monitora le attività delle amministrazioni comunali per la mitigazione del rischio idrogeologico ci informa che in 214 comuni italiani ci sono scuole o ospedali costruiti su aree con alta probabilità di subire allagamenti, smottamenti, frane o crolli. E non conforta sapere che i numeri sono peggiori per quanto riguarda le abitazioni (a rischio in 1019 paesi o città), o addirittura interi quartieri (in 392 municipalità), le strutture ricettive o commerciali (in 300 centri) e perfino gli impianti industriali, che in ben 737 comuni sorgono in zone tutt’altro che sicure. In tutto sono 7,5 milioni i cittadini italiani che vivono o lavorano in territori sottoposti a costante pericolo.

SECONDO L’INDAGINE di Legambiente, «sono 7.145 i comuni italiani (l’88% del totale) che hanno almeno un’area classificata come ad alta pericolosità idrogeologica, corrispondenti a circa il 15,8% del territorio italiano. Un dato fortemente condizionato dall’elevato consumo di suolo che continua ad avanzare».

Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti ma vengono così riassunte: «Le stime riportate dal Cnr 2 – si legge nel rapporto “Ecosistema Rischio” – indicano come dal 2010 al 2016 le sole inondazioni hanno provocato in Italia la morte di oltre 145 persone e l’evacuazione di oltre 40 mila persone. In questi giorni, con l’arrivo del maltempo – sottolinea Legambiente – sono scattate diverse allerte sul territorio, che si vanno a sommare ad alcuni eventi verificatisi anche nelle ultime settimane, e purtroppo vittime, come è successo a Livorno ad inizio settembre». In particolare negli ultimi tre anni «le regioni colpite da alluvioni o fenomeni franosi sono state 18, con la conseguente apertura (tra maggio 2013 e dicembre 2016) di ben 56 stati emergenziali (come riportato sul sito di Italia Sicura). Tutto questo ha causato un danno economico di circa 7,6 miliardi di euro, a cui lo Stato ha risposto stanziando circa il 10% di quanto necessario, 738 milioni di euro».

Si potrebbe pensare – fa notare il rapporto – che questo quadro sia solo dovuto allo «scellerato uso del territorio degli ultimi 70 anni», e invece «non trova giustificazione» il dato che vede almeno 136 amministrazioni, tra quelle che hanno risposto al questionario di Legambiente (1.462 amministrazioni comunali, corrispondenti al 20% dei comuni classificati dall’Ispra ad elevata pericolosità idrogeologica), «dichiarare di aver edificato anche nell’ultimo decennio in aree a rischio quando in teoria (ai sensi del decreto legislativo 152/2006) sarebbero dovute essere vietate». E sono 110 i comuni che hanno costruito su aree vincolate, nonostante il recepimento dei Piani di assetto idrogeologico nella pianificazione urbanistica.

SU TUTTI, SPICCA ROMA – con 250 mila cittadini esposti ad elevato rischio idrogeologico e dove proprio ieri, in una strada del quartiere Montagnola, si è aperta una voragine di cinque metri di diametro – che si aggiudica il triste primato di capitale anche della malagestione e della speculazione che può uccidere. Come «si riscontra all’Isola Sacra, alla foce del Tevere, dove migliaia di persone, secondo i dati  di Italiasicura, vivono (spesso in condizione di forte disagio urbanistico figlio della non pianificazione e dell’abusivismo) in una porzione di territorio ad altissimo rischio».

E nonostante che «il 65,1% delle amministrazioni abbia dichiarato di aver realizzato opere per la mitigazione del rischio nel proprio territorio», secondo Legambiente «la logica di tali interventi si basa ancora sul vecchio e ormai superato approccio degli interventi puntuali e strutturali». Insufficienti, se non  nefasti: per esempio, «il 9,4% delle amministrazioni ha ammesso di aver “tombato” tratti di corsi d’acqua sul proprio territorio, con  conseguente urbanizzazione delle aree sovrastanti».

Insomma, tanti interventi emergenziali, consumo del territorio irrefrenabile grazie anche a tre condoni tombali in venti anni, nessuna prevenzione e zero cura reale. Eppure la soluzione ci sarebbe. Cinque le priorità elencate da Legambiente: adattamento al clima, priorità dell’intervento nelle aree urbane, delocalizzazione degli edifici a rischio, rafforzare le misure di vincolo, formazione e informazione. Come per il terremoto, infatti, se l’obiettivo di messa in sicurezza di tutto il territorio nazionale è utopistico», non va sottovalutato il ruolo fondamentale che potrebbe avere la cultura della «convivenza con il rischio».