Le piogge eccezionali di questi giorni sono dovute al fatto che la temperatura della superficie del mar Mediterraneo si è innalzata di più della temperatura media globale. Così succede che nel mare tra la Grecia e Creta in autunno si formano dei piccoli cicloni extratropicali che risalgono verso la nostra penisola e portano un eccesso di precipitazioni che si aggiungono alle normali perturbazioni atlantiche di questo periodo».

Riccardo Valentini, docente di Ecologia all’Università della Tuscia, direttore del Centro euro-Mediterraneo sui cambiamenti climatici e membro dell’Ipcc (Intergovernamental Panel on Climate Change). Lo raggiungiamo mentre il nord Italia è di nuovo sott’acqua.

Le piogge torrenziali di questi ultime settimane sono un fenomeno nuovo, sempre più imprevedibile e a variabilità più elevata?

È un fenomeno con il quale dovremo convivere, non è reversibile, siamo già in una fase di cambiamento climatico, l’aumento medio della temperatura di circa 0,9 gradi è già qualcosa di reale e non possiamo riportalo a zero. Il problema è non peggiorare, non superare la soglia dei 2 gradi, come è stato deciso nel 2015 con l’Accordo globale di Parigi.

La tropicalizzazione del Mediterraneo ci espone paradossalmente anche al rischio siccità?

Certo, anche in uno scenario ottimistico di aumento della temperatura di 1,5 gradi per le zone che si affacciano sul Mediterraneo si prospetta una carenza di risorse idriche che avrà un impatto sull’agricoltura e sulla disponibilità di acqua per le attività umane. Ora mi trovo in Portogallo dove nel sud del paese non piove dal maggio scorso. Se l’aumento della temperatura è un fenomeno globale, invece quello delle precipitazioni è distribuito sul pianeta a macchia di leopardo, con effetti estremi e imprevedibili: quello che è alterato è il ritmo e l’intensità dei fenomeni.

Quali sono le misure di adattamento più urgenti da adottare?

L’adattamento ci deve essere per forza. Perché è stata individuata la soglia critica dei 2 gradi? Perché sappiamo che entro questa soglia abbiamo gli strumenti per adattarci, con la tecnologia e una serie di azioni abbiamo un margine di manovra per rendere più resistente il sistema. Nel caso delle piogge intense, è urgente adottare misure che aiutino a trattenere l’eccesso delle acque e questo va fatto riportando quanto più possibile i suoli alla loro funzione originaria che è quella di assorbire l’acqua. Se non riescono a farlo è perché sono stati sigillati con eccessi di cementificazione o perché l’agricoltura intensiva espone i suoli al rischio di erosione.

Come è possibile adattare le nostre città a queste piogge torrenziali?

Le misure di adattamento sono essenziali anche nelle città, non solo nelle foreste o nelle aree rurali. Non possiamo continuare a pianificare gli ambienti urbani senza prevedere degli sfoghi per l’acqua. Per questo sono importanti le aree verdi in città o anche i tetti verdi, come stanno facendo a New York, che da questo punto di vista è una città molto avanzata. Se è necessario trattenere l’acqua, anche il suolo urbano è importante, non l’abbiamo mai pensato prima ma oggi è necessario farlo. Basta pensare a cosa succede in una città come Genova quando piove.

E in tema di grandi infrastrutture?

Guardi, quando parliamo di adattamento, mi sconvolge pensare che per le grandi opere tutte le VIA (Valutazioni di Impatto Ambientale) che sono obbligatorie per legge, vengono fatte sulla base di dati climatici storici che si riferiscono a 30 anni fa e non sulla base degli scenari climatici futuri che si possono fare oggi. Le sembra normale? Basterebbe introdurre una norma che dica di guardare al futuro invece che al passato. E non costerebbe nulla. Ma questa logica ancora non c’è. Penso che noi scontiamo il fatto che il tema dei cambiamenti climatici sia stato considerato per molti anni qualcosa di elitario, che riguardava solo certi ambientalisti. Ora sono la più grande sfida che abbiamo di fronte come genere umano.

La settimana prossima a Madrid si apre la Cop 25 per l’attuazione dell’accordo di Parigi. Pensa che il governo italiano abbia fatto la sua parte?

Siamo in una fase in cui i piani e gli obiettivi generali sono ampiamente condivisi, almeno per quanto riguarda l’Unione Europea, penso che possiamo essere orgogliosi di far parte di una comunità molto avanzata che è all’avanguardia sui temi della sostenibilità, della sicurezza e della salute. Anche la politica nazionale si è adeguata. Ora dobbiamo declinare queste azioni in atti molto concreti sul territorio che riguardino direttamente anche le imprese e i cittadini.

Lei è stato consigliere regionale del Lazio con il presidente Zingaretti. Da scienziato prestato alla politica, quale può essere il ruolo degli enti territoriali nella lotta ai cambiamenti climatici?

È sicuramente un ruolo fondamentale perché sono proprio le Regioni a gestire il governo del territorio. Ora che la Strategia Nazionale di Adattamento è stata adottata, le Regioni sono tenute ad attuarla. Da ex-consigliere regionale, esperienza della quale mi sento onorato, ho capito che abbiamo una burocrazia elefantiaca che non sente in maniera etica cosa significa lavorare in un ufficio dove si possono fare tante cose per il bene dei cittadini. Questa lentezza ci porta ad essere un paese che si pone ai margini dell’Europa, fa sì che non riusciamo a spendere i fondi europei e questa è una vergogna, me lo lasci dire. Noi non abbiamo molto tempo a disposizione per metterci in sicurezza: che siano 10, 15 o anche 20 anni, dobbiamo fare tantissimo e utilizzare le risorse UE sarà indispensabile.

Le concentrazioni di anidride carbonica in atmosfera intanto continuano ad aumentare. Cosa non sta funzionando?

Non riusciamo a disaccoppiare la crescita economica dalle emissioni, cioè a trovare un modello che garantisca lo sviluppo senza incidere negativamente sul clima. Servono politiche più forti e più ambiziose di mitigazione, dobbiamo metterci in testa di riciclare i materiali, spingere sull’economia circolare, sulle energie rinnovabili e cambiare anche la dieta: l’ultimo report di IPCC, di cui sono tra gli autori, focalizzato su cambiamenti climatici e uso della terra, ci dice che il sistema agroalimentare nel suo complesso è responsabile del 37% delle emissioni. È un dato nuovo che ci deve far riflettere: non è solo il modo di produrre energia che crea il caos climatico, ma anche il modo di mangiare in un mondo dove ampie popolazioni storicamente vegetariane stanno diventando carnivore. Mi consola che almeno i ragazzi tutto questo l’hanno capito molto bene, anche più di noi scienziati. Stanno lottando e dovremmo prenderli più sul serio.

E la classe politica, l’ha capito?

Mi pare di sì, anche se rimane un negazionismo strisciante, forse perché questo è un paese di showman che hanno il problema della visibilità. Rimane il fatto che i negazionisti non fanno parte della comunità scientifica e non si capisce a che titolo intervengano su questo tema.