Io parto dalla questione che mi sembra centrale nella relazione di Occhetto: siamo a una svolta della situazione mondiale. La svolta si materializza nella vicenda del Golfo. Perché una guerra tutto sommato concentrata in un’area ristretta e finora durata poche settimane, sta assumendo significato generale? La questione del petrolio non basta a spiegare tutto. E nemmeno la pazzia di Saddam o la volontà di Bush di far fronte a un declino economico americano. L’unica spiegazione che riesco a trovare è che la vicenda squaderna dinanzi a noi l’immagine sconvolgente che è o può essere la scienza della guerra moderna. Questo emerge da ambedue i fronti della vicenda.

Dal lato dell’aggressore iracheno: vediamo un piccolo tiranno di un paese a economia subalterna, di pochissimi milioni di abitanti che può lanciare missili su Israele e minacciare la guerra chimica e batteriologica. Contro questo piccolo despota i più possenti paesi dell’Occidente industrializzato dichiarano di non avere altri mezzi che una guerra senza pietà, condotta con i loro più sofisticati strumenti di sterminio. Quanto più mi dicono che questa guerra è necessaria, tanto più mi spavento.

C’è un’altra strada? Io vedo qui il grande valore della scelta che sta dinanzi a questo congresso. Noi stiamo dicendo qui che per risolvere i conflitti tra gli Stati e bloccare l’aggressore ci può essere un’altra via. E dinanzi all’orrore della guerra del Duemila stiamo cercando, provando, lottando per una nuova, grande strada pacifica.

La Costituzione italiana dichiara che l’Italia rifiuta la guerra. Invece per la prima volta in quarant’anni l’Italia è di nuovo in guerra. Questa è la scelta che ci sta dinanzi: se quel ripudio scritto nella Costituzione è solo una frase, o invece qui deve diventare realtà. Perciò la lotta per il ritiro delle navi dal Golfo non è superata o marginale o accessoria. È coerenza con ciò che diciamo: atto significativo e necessario di una strategia.

È possibile un’altra strada? Noi stiamo proponendo e cercando una lotta contro l’aggressione e una via per la regolazione dei conflitti che siano pacifiche. Oggi cerchiamo di agire concretamente per mettere in pratica, qui e ora dinanzi a questa crisi, a questa guerra del Duemila, la via della pace. Non è una via rinunciataria. Anzi è quanto mai ambiziosa. Discutiamo tanto della nostra identità. Se scegliamo davvero, se tentiamo davvero questa strada, questa è una straordinaria assunzione di identità.

Questa strada chiede una forte coerenza. Una conferenza sul Medio Oriente non può essere affidata a un impegno generico, su un imprecisato domani, come era ancora anche in quel comunicato del segretario di Stato Usa e del ministro degli Esteri sovietico, che pure giorni fa è stato rifiutato da Bush. E non fermarsi ai palestinesi e alla sicurezza di Israele ma deve riguardare anche il Libano e non solo l’indipendenza, ma la libertà del Kuwait. Cioè dobbiamo lavorare perché si affermi una autonomia e libertà dei popoli arabi come coessenziale obiettivo della pace. Questa via ha implicazioni politiche subito: vuol dire che noi lottiamo contro Saddam, ma anche contro il despota siriano Assad, di cui nessuno parla e che oggi è l’amico di Bush e di Gorbaciov; e contro i satrapi miliardari degli emirati.

Ho apprezzato che il segretario del partito abbia detto che bisogna allargare il Consiglio di sicurezza dell’Onu e abolire (ho capito bene?) il diritto di veto. Questo significa dire oggi che 1’Onu non è un organismo democratico ma è controllato e manovrato dalle grandi potenze, sino alla clamorosa violazione del suo Statuto compiuta con la risoluzione 678.

Quanto ci vorrà per rompere questa oligarchia? Ci vorrà moltissimo se noi già da ora non cominciamo ad aprire questo terreno di lotta. E su ciò, invece, in questi mesi abbiamo consentito una mistificazione. Parlai al congresso di Bologna degli F16. Non mi vergogno di tornare a parlarne dopo un anno. Oggi lo vediamo: non si tratta di una base qualunque. Si tratta del fianco sud del sistema militare atlantico sul Mediterraneo. Il ministro De Michelis dichiara letteralmente che «il pericolo viene da Sud e non più da Est» e che è necessaria una forza militare capace di intervenire non solo fuori dai confini nazionali, ma «a distanza». Gioia del Colle, Crotone, Taranto, Sigonella, sono solo l’anticipo di una strategia: apriamo finalmente una lotta reale e di massa per un Mezzogiorno di pace? Apriamo finalmente una controversia per il rifiuto unilaterale degli F16?

Alle parole deve corrispondere la lotta. Tutti, più o meno, abbiamo criticato qui il pesante deficit di iniziativa della Cee nel conflitto mediorientale. Ma c’è una base, o almeno un primo terreno reale di parti nella Cee? No. E non solo per l’egemonia finanziaria tedesca, ma perché ci sono nella Cee due potenze atomiche: Francia e Inghilterra. Questo dato non è mai contestato o fatto oggetto di reale negoziato. Su questo punto non è esistita nemmeno una lotta.

Voglio dire che la grande, enorme, scommessa sulla pace come regolatrice dei conflitti, come base di un primo germe di governo mondiale, ha bisogno di una rigorosa coerenza. Non si può fare a spicchi.

Non si può restare in mezzo al guado. E ha bisogno di costruire nuovi soggetti reali. Questo congresso invece è ancora contraddittorio. Per un verso spinge a una scelta di pace che sembra alludere ad una nuova idea della politica; e per un altro verso è monco nell’autocritica sul limite grave che la sinistra europea, ma anche noi, ha avuto nella lotta per il disarmo e per il Sud del mondo. E io stesso qui taccio sulla posizione assunta dal sindacati.

Sostengo che scegliere la via della pace per affrontare questo conflitto è un modo forte di assolvere ad una funzione nazionale e internazionale. Il ritiro delle navi dal Golfo non è trarsi fuori, un rimpicciolirsi oppure l’Italietta che si sottrae a un ruolo internazionale. È un’altra strategia. E anche la proposta di una tregua unilaterale riceve così una motivazione di fondo, non solo tattica. Una simile strada sarebbe un grande atto verso il Sud del mondo: un cambiamento nella storia stessa dell’Occidente cattolico-cristiano. Anche per questo parla Wojtyla. E io non ho per nulla in testa lo schema di una America sposata alla causa o alla funzione di gendarme mondiale. Tanta America di oggi discute più laicamente che in Italia della guerra del Golfo. Noi, sinistra europea, puntiamo su questa America o su Bush? Ecco un nodo essenziale su cui si misura e si costruisce l’alternativa. Facciamo l’ipotesi che si possa cominciare a camminare su questa strada pacifica, io credo che man mano che avanzi una tale pratica di pace essa si riverbererebbe su tutto il panorama sociale. Anche la prepotenza di Romiti sarebbe più debole.

E questa strategia di pace sarebbe un potente anticorpo contro i reami della violenza e le fonti del dominio sociale. Sarebbe anche una rottura contro l’etica maschilista del possesso.

Io sono comunista e sono sceso in campo per una rifondazione comunista. E vedo quale novità, e arricchimento questo affrontare concretamente la violenza con la pace introduce anche nella tradizione alta del comunismo italiano; e quale terreno straordinario esso può aprire con altre culture e civiltà. Altro che il ghetto in cui ci vede chiusi Craxi. Ma lo sa Craxi che in Francia si è dimesso il ministro socialista della Difesa?

Se siamo coerenti, se non arretriamo spaventati, assume un forte significato che questo partito, dato per defunto, si cimenti in una tale innovazione pacifica e con questo tema grande e inedito davvero il peggio sarebbe restare in mezzo al guado.
Allora, su la schiena. E attenti al rischio della separazione. Voi che siete la maggioranza avete oggettivamente il potere più forte per evitarla.

Perciò provo a fare un appello a me stesso. Non credo alle confusioni e ai pasticci, e forse ne ho dato qualche prova. Credo alla fecondità delle differenze che si dicono alla luce del sole. Ma se in qualche modo siamo davvero al cimento di cui ho parlato, e a questo punto di svolta della vita mondiale, tutti dobbiamo parlare in modo diverso. Tutti dobbiamo cambiare qualcosa fra di noi e soprattutto fra noi e gli altri. Speriamo davvero di farcela.

  • Atti del congresso pubblicati su «l’Unità» del 3 febbraio 1991. Corsivi nostri.