Adibito, come ogni volta, a perturbante proiezione di mezzanotte, a Cannes ci sarà anche un mediometraggio di Gaspar Noé, Lux Aeterna, che pare si sviluppi tra metacinema e stregoneria, in attesa che esca il suo film precedente (nelle sale italiane il 13 giugno, disponibile in dvd e blu-ray con Wild Side Video) Climax, che del resto proprio da quel metacinema prende le mosse, cioè dalla riflessione sulle modalità di messa in scena, e proprio da un riflettersi dell’immagine contro il vetro dello schermo al di là del quale veglia, spia lo spettatore desiderante, desadiano.

Infatti è a partire dagli occhi e da un allestimento dello sguardo, inoculazione dell’acido nelle orbite sgranate, impassibili di Psyche, che si sviluppa e si sfoga questo film drogato, psicotropo: referto della sofferenza derivante da certi stati di alterazione, dalla visione lucidissima di sé fuori di sé, vagante in un interregno di puro terrore, che ti fa torcere, deformare, gridare come «cosa» carpenteriana. Un film che dalla psiche, da un abbrivio psicologico e poi appunto psicotropo, arriva all’horror, auspici le videocassette di Zombie, Suspiria, e latamente di Querelle, Un chien andalou, ecc. (a suggerire in qualche modo la tensione di Noé tra genere e cinema d’arte), affastellate ai lati del televisore su cui scorrono all’inizio i volti e le correlate, abbozzate psicologie dei protagonisti del baccanale, della danza macabra che verrà, frammezzata da inscrizioni a tutto schermo che dicono, anzi stagliano «alla lettera» il nichilismo di Noé.

UN NICHILISMO, orrore e (festosa) dissipazione della vita, del nascere, dell’essere dotati di un’anima, cioè «psiche» nell’accezione classica, che costituisce il presupposto e la commessura, come dire, mimetica, dell’horror nell’accezione di Noé: è l’umano – disinibito, divincolato dal suo super-io e così finalmente rivelato, liberato dalla sua cifra civistica per effetto dello stupefacente – anziché il sovrumano, stregonesco o demoniaco, a rappresentare il massimo grado dell’orrore, del mostruoso, come nella scena capovolta in cui i corpi riversi sul soffitto sono bestie scricchiolanti d’ossa e fasce tumide di muscoli, che nel deliquio, ossessione di techno e luce rosso-sangue, copulano, vomitano, schiumano.

È la liberazione della psiche, officiata dalla sua sacerdotessa d’alabastro, che causa l’esplosione, la disintegrazione delle condizioni dello stare insieme, della socialità colta ora in una delle sue forme più convenzionali nonché appaganti, la festa, che, venute meno le regole della convivenza, si tramuta in orgia di morte, ridda di violenza, incesto, infanticidio, fino all’aborto più scabroso (ennesima disquisizione di Noé sulla filiazione), che sovverte un altro topos della civiltà, quello della custodia meticolosa della donna incinta e del feto, ora presi a calci e pugni.

EPPURE, a dispetto di questo negativo violento, c’è nel cinema di Noé una vitalità che è quella del cinefilo, dell’esteta inebriato dal ritmo, immerso dentro storie, immagini, partiture; ed emerge già solo nei titoli di testa, nelle font utilizzate, poi nell’effusione crepitante della musica, le sagome, più che la plasticità, dei corpi, e soprattutto nello sfolgorio dei colori. Una vitalità che dopo, ad esempio, la freschezza e il brillare di uno schizzo in 3D (Love), o il ballo straripante (già divenuto di culto) all’inizio di questo Climax – corpi elettrizzati, incandescenti mentre risuona una versione strumentale di Supernature di Cerrone (1977) – si esaurisce in un mortuale sfavillare cromatico, come quello di Enter the Void in cui i colori giacciono in una luce fioca, marcia. Si tratta di un’energia della messa in scena, pullulare degli elementi di cui la messa in scena si nutre; cioè della vivacità della forma, che però paradossalmente riempie, carica di segni, di materiale cinematografico, l’anelito al vuoto, l’assunto nichilista, cui immagine ultima è una crepuscolare, piatta abbondanza di colori.

QUELLO che sembra mancare nel cinema di Noé è una profondità di campo, un respiro dell’immagine, schiacciata com’è dalla saturazione cromatica, che corrisponde a una semplificazione (acuita anche dalle spiegazioni fornite dalle iscrizioni), a un appiattimento della sua filosofia, della sua estetica, a cui forse aveva cercato di porre rimedio con la stratificazione in 3D di Love. Ma se è al cinema di genere che Noé si sta rivolgendo non è detto che questa stereotipizzazione degli spazi e delle profondità siano un male, anzi sarebbero funzionali alla suggestione stregonesca di un dipinto di Buono Lagnani (1976), così saturo e privo di prospettiva, e al décor acceso, vermiglio del Suspiria di Argento (1977), che trascende ora in questo orrore ai fosfori verdi, questo trionfo di delitti rossigni e balli violetti.