“Almagro rinuncia, non sei all’altezza”. Movimenti sociali e organizzazioni per i diritti umani sono partiti dal Venezuela per Santo Domingo, dove si è conclusa ieri la 46ma Assemblea generale dell’Organizzazione degli Stati americani (Osa): con il proposito di denunciare la parzialità del Segretario generale Luis Almagro, e per chiederne le dimissioni.

Familiari delle vittime e sopravvissuti alle violenze di piazza che, nel 2014, hanno provocato 43 morti e oltre 850 feriti (le guarimbas), hanno protestato per non essere stati ascoltati da Almagro. Quest’ultimo vuole applicare al Venezuela la Carta democratica interamericana, che prevede sanzioni economiche e apre la strada a un intervento esterno mascherato da “aiuto umanitario”. Incurante del pronunciamento che tutti gli stati membri (meno il Paraguay) hanno espresso recentemente per consenso, Almagro ha riproposto per il 23 giugno il voto contro il governo di Nicolas Maduro.

Ufficialmente, la discussione sul Venezuela non era in agenda, si è dibattuto di “sviluppo sostenibile”. Almagro ha comunque effettuato una riunione con “la società civile” (le ong di opposizione), e le sue reiterate dichiarazioni non hanno lasciato dubbi: “La crisi di penuria di alimenti e medicine ci chiede una data – ha affermato -. La situazione del Venezuela è grave e noi siamo qui per denunciare e dare l’allarme alla comunità internazionale”. Almagro, un uruguayano proveniente dalla coalizione Frente Amplio, la cui elezione era stata salutata con favore dall’America latina progressista, ha però subito scelto il suo campo, nonostante i richiami dell’ex presidente tupamaro Pepe Mujica.

Le fotografie in cui figura in compagnia dell’opposizione, non si contano. I suoi giudizi sul Venezuela assumono in pieno l’agenda politica che la coalizione Mud intende imprimere a partire dalla vittoria parlamentare del 6 dicembre: referendum revocatorio del presidente Maduro, ritorno al neoliberismo della IV Repubblica e alla “democrazia rappresentativa”, azzeramento di quella “partecipativa e protagonista” che ispira la costituzione bolivariana. Il Venezuela è una repubblica presidenziale basata sull’equilibrio di 5 poteri, voler imporre uno sugli altri (in questo caso quello parlamentare) significa destabilizzare il paese.

Per questo, il Tribunal Supremo del Justicia (Tsj, vero e proprio ago della bilancia costituzionale) ha messo in guardia il presidente del Parlamento, Henry Ramos Allup, dalla pretesa di volersi arrogare i poteri del capo di stato. Allup, considera però che il Tsj “è composto da quattro comari” e cerca di realizzare la sua principale promessa elettorale: liberarsi di Maduro in sei mesi. L’altra promessa di campagna, “farla finita con le code in 15 giorni” può essere rimandata a questo scopo.

Per questo, i grandi gruppi economici chiudono i rubinetti, le catene commerciali grandi e piccole sparano i prezzi in base al mercato del dollaro parallelo. Nei supermercati e nei negozi dei quartieri agiati si può comprare di tutto, basta avere uno stipendio da nababbi o trafficare col mercato nero dei dollari e dei prodotti.

Intanto, le destre cercano di provocare rivolte, mettendo a dura prova la pazienza e la consapevolezza dei settori popolari. Gruppi di agitatori di Voluntad Popular (il partito del golpista Leopoldo Lopez) agiscono nelle code dei supermercati. Compaiono “studenti” stranieri delle università private e organizzazioni di ispirazione “ucraina”. Episodi isolati, amplificati però dai media internazionali. Anche l’Italia ha il suo pasdaran, il vicepresidente del Parlamento Europeo, Antonio Tajani, ex militante del Fronte Monarchico Giovanile, poi tra i fondatori di Forza Italia, in seguito portavoce del presidente del Consiglio durante il governo Berlusconi e dal 2002 uno dei 10 vicepresidenti del Partito Popolare Europeo.

E ieri il Tsj ha bocciato una legge approvata dal Parlamento in cui si dichiara “la catastrofe umanitaria” in Venezuela e si chiede l’intervento esterno. Una “soluzione” respinta con forza dalle rappresentanze diplomatiche venezuelane all’Osa. Ma la coalizione Mud guarda a Washington e al Fondo Monetario internazionale, con il cui appoggio spera di sovvertire l’ordine democratico confondendo i paradigmi di riferimento. Così, Almagro vuole applicare la Carta in base all’articolo 20, ovvero in presenza di “rottura dell’ordine democratico”. Invece – ha fatto notare la ministra degli Esteri venezuelana Delcy Rodriguez – a dover essere tutelati dovrebbero essere il presidente eletto Nicolas Maduro e la democrazia venezuelana, ripetutamente confermata dalle urne.

Le destre, sempre messe a tacere dall’ampio margine di scarto con cui vinceva Chavez, hanno fin da subito contestato Maduro per la sua vittoria meno evidente, ma altrettanto certificata, su Capriles Radonski. Tutt’altro metro di misura, invece, nei confronti del “gringo” Pablo Kuczynski, neovincitore delle presidenziali in Perù per un pugno di voti su Keiko Fujimori, rappresentante della destra estrema.

Kuczynski, a cui Maduro aveva comunque rivolto le proprie congratulazioni, ha subito messo bocca negli affari interni del Venezuela. Ha dichiarato che per risolvere “una crisi brutale”, Maduro deve accettare l’aiuto del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale. Ha invitato i presidenti di Brasile, Argentina, Cile e Colombia “al alzare la voce” contro di lui. E ha assicurato che, quando assumerà l’incarico, il 28 luglio, parteciperà “a uno sforzo latinoamericano per il ritorno alla democrazia in Venezuela”. Il Perù è uno dei perni dell’Alleanza del Pacifico e del grande Accordo commerciale Transapacifico (il Tpp) realizzato dagli Stati uniti l’anno scorso.

All’Osa, è circolato un documento “informale” di marca statunitense che, a dispetto delle decisioni ufficiali, cercava di far pressione sui paesi membri per imporre l’intervento esterno su Caracas. “Almagro promuove il colpo di stato in Venezuela”, ha affermato Delcy Rodriguez. Roy Chaderton, ambasciatore del Venezuela all’Osa, ha denunciato una “campagna di linciaggio internazionale” contro il suo governo.

“Ora, qui – ha affermato – stiamo provando due dolori: uno più vicino nel tempo, che ci spinge a esprimere forte solidarietà al popolo statunitense e al presidente Obama, che tanto ha fatto per eliminare le armi dal suo paese, per l’attentato subito. E un altro più lontano nel tempo: l’invasione della Repubblica Dominicana da parte di oltre 44.000 marines per deporre il presidente bolivariano Juan Bosch. In quel caso, come di fronte a molti altri, l’Osa non si è posta a difesa dell’ordine democratico, ma delle aggressioni”.

Nel suo intervento di apertura, il neoeletto presidente dominicano Danilo Medina ha ribadito l’appoggio al dialogo tra governo e opposizione in Venezuela, condotto da alcuni ex presidenti come lo spagnolo José Zapatero sotto l’egida della Unasur. L’opposizione venezuelana non si è però presentata al secondo incontro. Capriles sta facendo un giro internazionale, per chiedere appoggio ai presidenti delle destre latinoamericane. In Argentina, dove ha incontrato il presidente Macri, è stato accolto da forti contestazioni popolari. Medina ha ricordato le aggressioni Usa al suo paese durante gli anni ’60: l’Osa – ha detto – dovrebbe “chiedere scusa” per l’atteggiamento di allora.