Nel primo giorno spazzato da un vento che odorava d’autunno – ma oggi è tornato il sole col caldo lagunare appiccicoso – sul Lido è arrivato il nuovo film di Terrence Malick, uno dei più attesi in quella manciata di titoli (insieme ai nuovi lavori di Lav Diaz e di Wang Bing in cartellone oggi) su cui anche chi di questa Mostra numero 73 non salva nulla o quasi (i quotidiani francesi Le Monde e Libération in testa) riponeva l’attesa di una impennata. E poi il «misterioso» regista di The Thin Red Line (La sottile linea rossa) e Knight of Cups è una delle icone cinefile di questo secolo, amato e odiato, respinto e molto imitato – i film «alla» Malick come dimostra Une vie di Stephane Brizé sono però intollerabili.

E se forse è presto per parlare di Leone – ma l’indovinello sull’argomento, si sa, è uno dei giochi prediletti sul Lido – si possono invece azzardare delle prime «proiezioni»: scorrendo le palline della critica nostrana in testa rimane La La Land, voto condiviso con la stampa internazionale, seguito dal film argentino (per molti subito Leone) Il cittadino illustre scelta quest’ultima con divisa col pubblico. Che a pari merito vota anche i Nocturnal Animals di Tom Ford. E, guarda un po’ nella classifica in alta posizione c’è Spira Mirabilis, una delle punte di questo concorso veneziano (forse il solo film a essere piaciuto anche all’ipercritico Liberation) per l’espressione di una idea personale (e in movimento) di cinema, che gli spettatori hanno infatti premiato – perché il pubblico a differenza di quanto pensano in molti non è un’entità astratta e ebete pronta solo per le «piume».

Voyage of Time: Life’s Journey rivela la sua storia già dal titolo: l’origine del mondo, il suo bing bang, i vulcani, le stelle, le diverse forme di vita, i buchi neri nello spazio-tempo che esplodono moltiplicandosi tra le lave incandescenti di un vulcano millenario. Gli oceani, le stelle, gli animali, il ciclo della vita, le sue infinite e invisibili particelle che continuano la loro corsa, cercando la sopravvivenza. Il respiro del nostro pianeta, la Madre che la voce fuori campo (di Cate Blanchett) cerca come in una preghiera. O una poesia, una invocazione amorosa, il mantra ripetuto in circolo come circolare è l’esistenza.

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il regista durante le riprese

La natura e il suo equilibrio, la natura e l’uomo (ma senza tentazioni ecologiste) che ne è parte nella sua essenza primordiale, armonicamente integrato insieme agli altri a lui simili, finché, come Narciso non coglie il riflesso del suo volto nello specchio delle acque: il sé contro il noi, l’eternità della guerra e della conquista, la distruzione di un’innocenza ormai irrecuperabile. Nelle ere senza tempo dei dinosauri digitali, il cucciolo dinosauro come un Bambi primordiale perde la madre, la cerca sulle rive dei mari (ci sono moltissimi e sofisticati effetti speciali in questo film prodotto tra gli altri da Brad Pitt).

Nel presente anch’esso senza una timeline la ragazzina, in quella che è la casa di Tree of Life cerca ancora la Madre, l’essenza primigenia della natura. I suoi piedi scivolano sull’asfalto, tra i grattacieli che hanno inghiottito il verde, in quell’armonia che non esiste più, o che forse non è mai esistita, di cui rimangono frammenti di miseria, desolazione, solitudine, violenza.

A chi ama Malick – o a molti tra questi – il film (lungamente applaudito in proiezione stampa) è risultato indigesto. Eppure è sempre Malick, lo si adora o lo si detesta appunto, la differenza rispetto agli ultimi suoi film è che qui la trama del pensiero è scarna, non ci sono leziose fanciulle danzanti né cavalieri in cerca di redenzione. E nemmeno epifanie soprannaturali, perché filmare il cielo con le nuvole che si spalancano non è per forza (anzi) sinonimo di dio.

Malick invece mette al centro la materia dell’universo, la sua fisicità priva degli elementi narrativi che la «giustificavano» negli altri film, quasi che questo, definito «un documentario» ne divenga il contrappunto, o il loro completamento come vuole il metodo «ready made» del regista che utilizza elementi degli altri film (Tree of Life stavolta soprattutto) pezzi di set, luoghi, visioni. E materiali che possono essere «inerti», girati in tutto il mondo, uguali alle migliaia di immagini che scorrono ogni giorno sul web, e che nei suoi accostamenti perdono l’anonimato per dire di una condizione, anch’essa al di là dei confini geografici o di un contesto definito.

La trama è semplice, semplicistica persino ma non vuole essere altro di più: il viaggio è quello del nostro pianeta, la storia è la sua storia che narra una incredibile resistenza, la capacità a trasformarsi adattandosi a nuove forme, le forme del presente, quasi che anch’esse ne fossero divenute il volto, senza nostalgia e senza gli idilli di un impossibile paradiso perduto. C’è solo la lotta per la sopravvivenza e l’avvicendarsi delle specie, l’umano stavolta (e questa è una scommessa interessante ) rimane a lungo ai bordi dell’inquadratura, pure se la voce che cerca la madre terra è umana, è l’uomo, la sua mente, il suo destino… O forse la sua pretenziosa idea di dare al mondo una immagine sola.

Malick attraversa le ere in una sinfonia, eccede in musica, come sotto a un microscopio planetario ingrandisce i dettagli della vita e del suo movimento, di un’esperienza singolare per ciascun vivente, qualsiasi esso sia. Non c’è altro da aspettarsi, quasi che in questa scarnificazione essenziale dell’universo, nel quale in fondo tutto era lì, sin dall’inizio, il regista lasci balenare la sostanza «grezza» del proprio cinema aperta alle interpretazioni o anche al nulla. Al di là delle storie d’amore e dei balletti sentimentali, di redenzione e peccato.