Da qualche anno il cinema cileno ha cominciato ad esplorare il sud del paese, là dove tutti suggeriscono di recarsi per scoprire le meraviglie del paesaggio. Ma Benjamin Brunet è un regista nato al sud, a Los Lagos e il suo non è lo sguardo del turista o dell’esploratore, anzi La madre, el hijo y l’abuela (la madre, il figlio, e la nonna) presentato nella sezione Onde curata da Massimo Causo al festival di Torino strappa da quella terra il profondo segreto legato alla sopravvivenza e alla caducità di tutte le cose. Il Cile, terra di terremoti e maremoti che possono cancellare tutto, aggiunge al sud anche i vulcani, un’altra minacciosa presenza. In particolare nel 2008 il vulcano Chaitén, nella provincia di Palena, considerato inattivo e spento da 7000 anni, colse gli abitanti di sorpresa distruggendo e avvolgendo tutto in una nuvola di fumo per 16 chilometri e più di altezza. Fu dato alla popolazione l’ordine di evacuazione.
A Chaitén del dopo disastro un fotografo si aggira tra le macerie, cerca di mettere insieme qualcosa che non esiste più, si aggira tra le rovine della casa della sua famiglia, figlio adottivo che ha perso i suoi riferimenti per la seconda volta. Lo ospita Ana, la padrona di una tabaccheria in una delle poche case rimaste in piedi, che ha un figlio che si è trasferito a Santiago e che non torna più al paese. Qui viene a contatto con un altro tipo di dissoluzione: «l’abuela», la nonna Maria, è una donna molto malata che rifiuta di recarsi in ospedale nella città per non lasciare la sua casa. Così la distruzione creata dalla natura sulle cose e sulle persone coincidono come destino incombente da accettare comunque.
Girato come un andamento tra onirico e documentaristico, con improvvise virate in una animazione legata ai sogni, sembra voler ricordare che ogni minuto della vita è prezioso. «Avevo in mente di realizzare un progetto fotografico nella mia casa devastata, dice Benjamin Brunet, rimasta senza né luce né acqua e sulle poche persone rimaste nel paese. Poi ho conosciuto Ana, una signora che gestiva con forza la situazione, l’eruzione che aveva portato distruzione e ho cominciato a filmare, aggiungendo una madre molto malata. Mi ha sempre interessato la famiglia, anche tra persone che non hanno legami di sangue, un rapporto che permette di guarire le ferite. Nel cammino del film incontro varie persone e il fotografo diventa solo un pretesto, non volevo fare un film su di lui, ma su quello che vedevo. Infatti a un certo punto il fotografo riparte e al centro resta Ana. Lei non è andata via nella realtà, perché sua figlia è sepolta lì e non può abbandonarla». Per quanto riguarda la caratteristica del luogo, dice: « Per me Chaitèn era un luogo perfetto per parlare della morte e di gente che non vuole morire. Un posto perfetto per parlare della vita e di persone con radici così forti che non vogliono abbandonare quel posto nonostante tutto. Nel sud del Cile sempre ci dicono che si vive meglio altrove, che la vita e gli affari sono altrove. Ho fatto questo film perché è parte delle mie radici, anch’io vado via, poi torno. Devo proteggere quei luoghi. È come una resistenza alla morte perché non voglio che quel luogo muoia.
In quanto alla struttura del film, è fatto di improvvisazioni, soprattutto nelle conversazioni. Poiché gli interpreti non sono attori (il fotografo è il nostro direttore della fotografia), avevamo una certa flessibilità, così mentre giravamo modificavamo la sceneggiatura. Dopo aver cominciato cercando qualcosa di simbolico, cercando di catturare l’estetica della distruzione, ho valorizzato poi nel film la fotografia del quotidiano, le foto che si scattano ai compleanni, le foto di famiglia».
Un esordio semplice all’apparenza, ma più profondo di quanto potrebbe sembrare, che ha già ottenuto premi nazionali e segnalazioni sia per la sperimentazione che per essere un’opera prima, ha vinto il Festival Internacional de Cine de México ed è stata nominata al Premio Lisboa Bull nella categoria dei film sperimentali.
Dall’Argentina è arrivato un altro esordio, Arpón, di Tom Espinoza (classe 1981) venezuelano che ha studiato e vive a Buenos Aires, film di coproduzione che vede tra i credits anche il musicista venezuelano Linares, nomination all’Oscar per El abrazo del serpiente. Thriller che nasce come un sopruso inaccettabile nei confronti della privacy e acquista via via una dimensione umanistica. Il direttore di una scuola media, Argüello (German de Silva, era in Storie pazzesche di Damián Szifron) controlla scrupolosamente gli zaini degli studenti per evitare la diffusione di droga e infatti in quello di una studentessa quattordicenne (Nina Suarez) trova una siringa. Ma non si tratta di droga, è un liquido che serve a gonfiare le labbra così come si vede fare dalle modelle. Dopo che la ragazza ha un incidente, cerca di prendersi cura di lei poiché la madre è fuori città. I due hanno un carattere chiuso e diffidente, lui brutale, lei colma di gelida determinazione. Ognuno difende i suoi spazi, né c’è la possibilità di incontro soprattutto per la differenza generazionale («un film sull’adattamento e l’inevitabile apprendistato che si acquista durante il cammino» dice il regista). Intorno a loro come un cerchio che si stringe e limita la possibilità di dialogo ci sono i regolamenti della scuola, le ispezioni scolastiche, le regole della società. Ma quello che più risalta è quanto di sottinteso si indovina tra una scena e l’altra del vissuto dei due protagonisti così diversi, lei ragazza lasciata a se stessa da una famiglia assente, determinata a non lasciarsi invadere, lui con un passato certamente misterioso, con quelle infinite cicatrici sul corpo e le reazioni da puma pronto all’attacco. Ispirato a fatti di cronaca, è un esordio preceduto nel 2015 dall’interessante cortometraggio «Las aracnides».