Non è patinato, non ha la firma di un archistar, né avanguardie tecnologiche da esibire, eppure è stato dichiarato da Icom Italia (International Council of Museums) museo dell’anno 2017. È il Museo Internazionale delle Marionette «Antonio Pasqualino» di Palermo. Se qualcuno avesse qualche dubbio sulla scelta può andare al museo che occupa un’ala di quello che fu lo storico Hotel de France, vicino a piazza Marina, nel quartiere della Kalsa. In quelle stanze, che hanno il calore di una casa, di fronte alla sfilata di Carlo Magno e dei suoi paladini, replicati in centinaia di esemplari, ogni dubbio si scioglie. Qui il museo raggiunge la perfezione della forma che molti inseguono, ma pochi raggiungono perché non basta il buon livello dell’ordinamento e dell’allestimento delle collezioni.
La forma dipende dalla capacità – quasi uno stato di grazia – di mettersi in sintonia con il patrimonio che si espone. Tutto ha un garbo, niente è gridato. L’iperbole è solo quella dello sguardo dei pupi e degli altri compagni del teatro tradizionale nel mondo, dalle marionette sull’acqua del Vietnam, animate da persone che stanno immerse fino al dorso, ai personaggi e alle macchine sceniche di Tadeusz Kantor, ai pupazzi di Enrico Baj. Non ci sono vetrine. I pupi e tutti gli altri li guardi direttamente negli occhi e nello schermo che sembra quasi nascondersi tra tanta manualità.

marionette
NELLA SALA dove è allestito il teatro di Gaspare Canino di Alcamo, cuore pulsante del museo (più di mille rappresentazioni in cinque anni), lo spettacolo continua con l’infilata di pupi alle pareti e le vecchie panche. I pupi, quelli alla palermitana che si differenziano dai catanesi e dai napoletani, sono alti ottanta centimetri. Il ginocchio è articolato. Hanno un ferro che si aggancia al busto e un altro per il movimento del braccio destro che tramite un filo tenuto dal puparo consente di sguainare e rinfoderare la spada. Un solo puparo può muovere più pupi, interpretare con la voce più personaggi e fare i rumori di scena con uno zoccolo di legno. Spesso è lo stesso costruttore del pupo. Quella di Icom, che pur ha voluto riconoscere la diffusione tutta italiana di piccoli musei, sembra una scelta controcorrente. «Il Museo sa valorizzare allo stesso modo – si legge nella motivazione del premio – il patrimonio materiale e quello immateriale in una città fortemente turistica e ricca di storia, il museo sa attrarre numerosi tipi di pubblico, con una collezione originale e programmi di qualità». Svolge attività per le scuole, ha un programma editoriale e l’ultimo, tra sessanta titoli è La mia patria è un racconto, frutto di un lavoro di sei mesi di conversazione e laboratori tra giovani autori e Davide Camarrone, Beatrice Monroy e Mario Valentini, in collaborazione con il Festival delle Letterature Migranti. Ha in programma un convegno sul fenomeno del tatuaggio nell’età contemporanea. Da 42 anni organizza il Festival Morgana che, nelle ultime edizioni, si è dedicato alla cultura del teatro di figura internazionale, tradizionale e contemporaneo. In tutte le attività, il museo segue la relazione con la comunità di cui si sente espressione. Vogliamo contribuire, dicono gli organizzatori del festival, dedicato ad Antonino Buttitta, a rendere più consapevole la comunità in merito alla propria storia, alle modalità di espressione e costruzione dell’identità in un’ottica multiculturale, anche per «respingere il veleno del particolarismo locale, quel senso di insularità di cui Sciascia parlava come un male oscuro».

IL MUSEO, dice Rosario Perricone, presidente direttore, è «un incrocio e un incontro tra teatro, letteratura, arte, ricerca, antropologia che fa delle pratiche tradizionali a forte carattere comunitario un punto di partenza, grazie a un approccio multidisciplinare e transculturale». Il dato straordinario è nell’origine. Dietro all’impresa c’è l’Associazione per la conservazione delle tradizioni popolari voluta nel 1965 Antonio Pasqualino, medico chirurgo e antropologo e seguita ora da Janne Vibaek, presidente dell’associazione.
Per il museo, che aprì nel 1975, c’è anche una storia di fondazione. Antonio Pasqualino aveva un anno e mezzo quando ricevette in regalo due paladini. I pupi lo accompagneranno per tutta la vita. «La prima volta che siamo usciti insieme – ricorda Janne, sua moglie – mi ha portato a vedere uno spettacolo di pupi». Di ritorno da un periodo di visiting professor di Antonio Pasqualino, ad Atalanta negli Stati Uniti, i coniugi scoprirono che molti pupari avevano venduto pupi, cartelloni, copioni. Interi teatri erano finiti nei musei all’estero. L’Opera sembrava destinata a un declino inarrestabile. Decisero così di comprare un teatrino con circa novecentomila lire. Nacque in questo modo un’impresa del tutto volontaria, condotta con molto rigore e pochi aiuti. Alla raccolta di materiali (circa 3500 oggetti) accompagneranno un’attività di studio e di ricerca.

VENNE PURE fatto un censimento delle marionette esistenti nelle collezioni private e in 140 musei d’Europa. Soprattutto, anche con confronti internazionali, restituirono nuova dignità all’arte dei pupi. Il museo si consolidò fino a diventare quello che Icom segnala «come uno dei musei più amati e meravigliosi d’Italia». Si deve a quel luogo l’avvio della procedura che ha portato l’Unesco nel 2001 a dichiarare l’Opera dei Pupi «capolavoro del patrimonio orale e immateriale dell’umanità». È il primo patrimonio italiano a entrare nel 2008 nella lista dell’Unesco.
Pietro Clemente, antropologo, presidente onorario della Società italiana per la museografia e i beni demoetnoantropologici, mette in rilievo l’importanza del lavoro che l’Associazione ha fatto. «Hanno contraddetto coloro che credono non si possa salvare per forza o per amore qualcosa che sta morendo (e che farlo produce una falsificazione). Antonio e Janne Pasqualino hanno contribuito alla ripresa in modo diffuso dell’arte dei pupari, non solo con la compagnia più celebre, ma con nuove compagnie di giovani e con un pubblico nuovo fatto di bambini, appassionati e turisti». Clemente sottolinea come la salvaguardia di una pratica della tradizione sia proprio nella trasmissione del bene alle nuove generazioni.

ALLA FINE del Duello di Orlando e Rinaldo per amore della bella Angelica Salvatore Bumbello si presenta sul palco. Non è una concessione alla modernità. Il dialogo con il pubblico è sempre stato presente anche quando i pupari giravano per le campagne e rappresentavano storie a puntate. Per 45 minuti ha dato corpo e voce a Rinaldo che viene sorpreso da Orlando in compagnia di Angelica, mentre Carlo Magno, abbandonato dai suoi paladini, è a Parigi assediato dai mori. Dimostra come il duello a colpi di spada, che abbiamo visto tra i due paladini, sia il frutto di un protocollo controllato di passi e movimenti. Ha con sé i figli che si sono alternati alla pianola. Il più piccolo è già in grado di manovrare l’Angelo che appare nella storia dei paladini di Francia.