Chi ebbe modo di osservare al lavoro il celebre scultore animalista Sirio Tofanari (1886-1969) testimonia d’una sua maniera speciale di concentrarsi sul modello, articolando un rituale mimetico di gesti, di smorfie, di versi. Ha scritto Enrico Sacchetti che quando Tofanari «parla d’un uccello par che voli, e quando parla d’un granchio s’atteggia tutto di scancio e move le braccia che paion proprio le tenaglie d’un granchio». Simulazione preliminare che equivale ad un immedesimarsi: come se modellasse se stesso applicando la medesima ancestrale sapienza metamorfica che lo conduce a plasmare l’opera. Penso, ad esempio, al Leopardo, o a I babbuini conservati a Roma nelle collezioni del Quirinale. Credo che in questa disposizione Tofanari conservi un presupposto essenziale all’attitudine plastica impressionista, propria dei suoi anni di autonomo apprendistato. Dico quel metodo di operare e di condurre a compimento che trae energia da un avvio abrupto; un atto di volizione che, una volta innescato, ha da giungere al suo scopo per forza propria, affermandosi libero nella intima adesione al tema scelto. Così dal tempo delle prime prove presentate alla Biennale di Venezia del 1909. Risultati d’esordio per i quali pare ovvio individuare affinità di caratteri, stilemi e modi nell’orizzonte segnato alla scultura animalista da Rembrandt Bugatti (1884-1916). Una crescita in contiguità. Bugatti, dall’anno 1900, per tre lustri, tiene la scena fino alla sua precoce, tragica volontaria scomparsa nel gennaio del 1916. Aveva preso ad osservare gli animali esotici al Jardin des Plantes di Parigi, Bugatti, fin dal 1901 e poi, nel 1907, raggiunge Anversa, la città che ospita il giardino della Societé Royale de Zoologie, ove resterà sette anni. Tofanari, a sua volta, si reca al Jardin des Plantes per i suoi studi, nel 1906, e poi si stabilisce a Londra e si fa assiduo frequentatore del prestigioso zoo della Zoological Society of London e del Natural History Museum di South Kensington.

Una allegra canzonetta inglese, a quel tempo popolare, intonava Walking in the Zoo is the ok thing to do. Da allora la sfida assunta da Tofanari è dar conto dell’immediatezza, dell’istantaneo e del rapido, ma entro la regola del controllato, del ponderato, del definito. Un proposito ben evidente nella mutazione alla quale sottopone il suo iniziale modellato fluido, come in espansione, per consolidarlo ed assestarlo sui valori del composto e del compatto, dove il levitante è rattenuto e circoscritto. Altri tempi di fattura, allora, altri ritmi per restituire le perspicuità e i caratteri distintivi, il connotato peculiare dei modelli e fissarli nella resa d’una movenza, d’una andatura, d’un contegno.

Se la scultura d’animali di Bugatti affida al momento visivo una integrazione essenziale alla compiutezza del risultato plastico, Tofanari suscita nell’osservatore una seduzione tattile. Aveva notato Sacchetti: «tocca un bronzo, e par che senza toccarlo non riesca a vederlo bene». Così, mentre Bugatti ti chiede uno sguardo da lontano, Tofanari ti invita ad accostarsi, richiede un contatto: la mano trascorre sui bronzi non per profilare un contorno, ma per apprezzare un corpo, una ‘massa’ che senti viva. «Ritrovo Sirio Tofanari, serio, corretto, silenzioso, nelle sale della Galleria Pesaro a Milano, fra quaranta sue sculture bronzee d’animali, come un domatore nel suo serraglio. Carezza le groppe degli ippopotami, appoggia la mano sul leopardo, stuzzica le piume irsute d’un rapace notturno». Così Roberto Papini su Il Mondo, nel giugno del 1920. Stilizzato, manierato, carico, sintetico, potente, prezioso: tale Tofanari nei giudizi di Carlo Carrà, Ugo Ojetti, Antonio Maraini, tra 1920 e 1926.

Giudizi che danno conto di alcuni risultati conseguiti dallo scultore, ma poco appoggiati sulle istanze e questioni d’ordine formale che invece precisa Papini quando scrive che Tofanari «capì che l’abilità di ritrarre l’attimo di moto non è sufficiente, che le forme debbono assestarsi in un ritmo conchiuso entro l’ambito della composizione, che scultura è risalto di masse e non barbaglio di luci e di ombre. Padrone della forma, dei caratteri, delle abitudini dei soggetti ritratti li ha composti liberamente, ossia di maniera».