«Sempre devi avere in mente Itaca / raggiungerla sia il pensiero costante», scriveva nel 1911 Konstantinos Kavafis. Per Luca Baldoni, poeta e appassionato di escursionismo, l’isola di Ulisse non è solo metafora di un viaggio esistenziale ma una destinazione concreta, una terra incognita da battere palmo a palmo. Itaca. L’isola dalla schiena di drago (Exòrma, pp. 312, euro 15,50) è il racconto spontaneo e dettagliatissimo di questa esplorazione, arricchito da annotazioni di carattere storico e storiografico.

FIN DALLE PRIME PAGINE, si delinea l’approccio di Baldoni che, sbarcato ad Itaca in una notte di luna nuova, si lascia condurre da due donne vestite di nero in una casa del paese di Vathi. Il rapporto con gli indigeni costituisce la chiave delle ricerche sul campo ma è anche un espediente narrativo che a tratti rende questo cahier de voyage simile a un romanzo pittoresco. L’autore sa che l’isola è prigioniera del mito e – sulla scia di illustri predecessori quali William Gell e Heinrich Schliemann – insegue l’eco di Ulisse, là dove epos, archeologia e credenze popolari s’intrecciano in un enigma perpetuo.

LA FONTE ARETUSA, la capanna di Eumeo, la grotta delle Ninfe, il podere di Laerte sono «una manciata di ossicini, come quelli che si usano nelle divinazioni», toponimi da indagare nell’ostinata e sentimentale volontà di carpire, tra paesaggio e rovine, la verità omerica. Come non pensare all’antro sacro alle Naiadi descritto da Atena ad Ulisse quando si scorge, nella cavità rocciosa di Marmarospilia – oggi identificata con la grotta delle Ninfe – un pertugio raggiungibile solo dagli dèi? Ma se le riflessioni scientifiche s’impongono sulla suggestione, un frammento di terracotta del I secolo d.C. con incisa una dedica a Odisseo, riaffiorato nel santuario di Polis, spalanca l’orizzonte epico.

PER BALDONI, che si affida alle indicazioni della responsabile del museo archeologico di Stavros, la glaucopide Fotoula, quel reperto riconducibile al culto dell’eroe è la prova di una memoria lontana e di «un senso di appartenenza visceralmente sentito». L’autore, che in collaborazione con Denis Sikiotis, ha promosso la riapertura degli antichi sentieri di Itaca, rivela il volto più autentico di un’isola indissolubilmente legata alla questione omerica, in cui tuttavia riemergono storie di pirati e di hippy mentre nei suoi abissi riposa, con i sogni infranti di Byron e Foscolo, la città bizantina chiamata Jerusalem.

Delle geografie interiori di Itaca parla invece Maria Grazia Ciani, raffinatissima grecista, che con La morte di Penelope (Marsilio, pp. 96, euro 12) ci offre un ritratto controcorrente della sposa di Ulisse. Il romanzo poggia su un’architettura di pensieri intimi, sguardi furtivi e gesti guardinghi, che culmineranno nell’ultima freccia scagliata da Ulisse con il suo leggendario arco. La Penelope tratteggiata nei versi di Omero sembra appartenere già al regno dei morti, chiusa nel suo universo di lacrime e attese, piegata sulle infinite trame di un orizzonte spezzato. Ciani si discosta dall’immagine cristallizzata di una donna moralmente inespugnabile, la cui bellezza resta intatta come un’offerta agli dèi. Col volto nascosto dietro a un velo, la sua Penelope osserva lo scompiglio portato a palazzo da una schiera di pretendenti. L’antica legge dell’ospitalità deve essere rispettata, questa forse è l’unica promessa accordata al consorte, assente da vent’anni. A fare da contraltare a Penelope è nel libro il personaggio di Anfimaco, che l’autrice preferisce chiamare Antinoo, rievocando così il rigoglioso splendore dell’amante di Adriano.

IN POCHI INTERFERISCONO in questo dialogo che è come un gioco di specchi. Euriclea e Telemaco provano a riportare Penelope nel sacro recinto dell’epos mentre il cane Argo – testimone silenzioso di un nascente amore – l’abbandona per riparare nella baia di Forco. Ma la forza infusa da Ciani, traduttrice e mille volte lettrice dell’Odissea, alla cugina dell’ingombrante Elena è più forte: i sigilli di uno scrigno segreto si sono rotti e la regina, presa dal desiderio, esce allo scoperto. Lo straniero che bussa alla porta, a Itaca, verrà sempre accolto perché «un viandante può essere un dio». Ma sotto le sembianze di un vecchio mendicante si cela l’esule per mare, che punisce col sangue chi rinnega il suo nostos.