«Io non ce posso crede che qui sarà tutto cemento». Franco, pensionato di 65 anni, ha la fronte corrugata mentre osserva l’immenso cantiere del futuro centro commerciale di Valle Aurelia, il quartiere in cui si è trasferito trent’anni fa.

Siamo a Roma, a pochi passi dalle mura vaticane, a cavallo fra i quartieri Aurelio e Trionfale. Il cuppolone di San Pietro svetta chiaro sullo sfondo del cantiere, fra le braccia delle gru che roteano senza sosta. Un enorme cratere profondo almeno 30 metri, scavato fra la fermata della metro A e i primi palazzi del viale principale, circondato da una cortina di pannelli che lo nasconde agli occhi curiosi dei passanti. «Ridateci il parco! No al centro commerciale!», recita una grossa scritta di vernice blu sulla recinzione, su un alone opaco prodotto dall’alternarsi di graffiti e riverniciature.

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Vista sul cratere (foto Marco Marchese)

L’UNICO AFFACCIO SUL CANTIERE è dal terrazzo della parrocchia San Giuseppe Cottolengo, dove capita sempre d’incontrare qualche anziano che scruta incuriosito l’avanzamento dei lavori. Rimangono a lungo in silenzio, come ipnotizzati dai movimenti delle ruspe, delle betoniere, delle trivelle. Solo di rado si scambiano qualche commento, costretti a urlare per farsi sentire nel frastuono infernale delle macchine. Franco ironizza: «Ecco, mo sì che je starebbe bene er vecchio nome de valle dell’Inferno». Fa riferimento all’antico toponimo di Valle Aurelia. La sua origine è incerta, ma nella memoria popolare è saldamente associata al fumo nero delle tante fornaci che vennero costruite verso la fine dell’Ottocento in questa lunga valle, stretta fra colline d’argilla. Era l’epoca della «febbre edilizia» nella capitale del giovane regno d’Italia, la valle si popolò di manodopera proveniente da fuori. Col tempo, i fornaciari iniziarono a costruirsi le case con i materiali a disposizione. Fu così che si sviluppò lo storico borghetto della valle dell’Inferno, descritto come una «borgata atipica» dal sociologo Franco Ferrarotti, proprio per la vicinanza delle case alle fornaci di mattoni.

PIERO, PINO E IVO passano spesso il loro tempo al bar del viale a sorseggiare caffè corretto o Fernet Branca. Gli occhi si illuminano quando parlano del borghetto: «Era come un villaggio medievale, con le strade strette e le case costruite una sopra all’altra». Sono tre vivaci romani sui sessant’anni, si insultano l’un l’altro con aria bonaria e fanno a gara a chi ricorda meglio i nomi e le date.

NOI TRE CE CONOSCIAMO da sempre… da quando giocavamo a tirasse la creta e qui intorno se giravi la testa a 360 gradi nun vedevi niente. Laggiù facevamo er bagno nella marana e acchiappavamo le anguille, ve ricordate? Qui era tutta campagna… pensa che quando andavamo al centro dicevamo “annamo a Roma!”». Ivo indica il Monte Ciocci, proprio sopra al cantiere: «Lassù ce stanno ancora i pastori con le pecore, è lì che c’hanno girato Brutti Sporchi e Cattivi», il celebre film di Ettore Scola. Piero mi racconta sorridendo: «Mio nonno mi diceva sempre che questo era l’unico posto in Italia dove si attaccavano le bandiere rosse il primo maggio su tutte le ciminiere. Una volta le camicie nere hanno provato a venire sull’autobus 51, tutti insieme, tutti cor manganello, c’hanno sempre preso le botte!». La valle col tempo siè popolata di leggende che dipingono, forse meglio degli stessi fatti storici, il passato rosso del quartiere. «Si racconta che durante la marcia su Roma un gruppo di fascisti è stato buttato di peso nei forni». «Lo sai che lo stesso Lenin citò le fornaci chiamandole “la piccola Russia”?».

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Fornace Bonomi

PINO HA QUASI FINITO il suo amaro, gli vengono gli occhi lucidi mentre rievoca i tempi passati: «Tutti i sabati era una festa… si andava alle osterie a beve e a giocà a carte, a magnà le cozze cor limone, le fusaie. Ci conoscevamo tutti, ora c’è ’na stracciatura qui, è cambiato tutto… sta a crollà pure l’ultima fornace!». Indica l’alta ciminiera della fornace Veschi, che appare così esile nel marasma del cantiere. È l’ultima rimasta in piedi; un reperto d’archeologia industriale che si erge come un totem a simbolo del passato lontano. Il «programma di recupero urbano» prevede la ristrutturazione della fornace, sottoposta a vincolo paesaggistico, ma sarà una manciata di mattoni in mezzo a una colata di cemento.

IL PROGETTO DEL CENTRO commerciale, già scongiurato nel 2005 dalla mobilitazione massiccia del quartiere, è stato approvato nel 2013, durante l’ultima settimana del mandato del sindaco Alemanno. La costruzione oggi è affidata alla ditta Cds Holding, con un investimento della multinazionale Multi Corporation. L’opera, su una superficie di oltre due ettari, prevede due piani interrati di parcheggi, un piano terra con ipermercato, due piani di negozi di grandi catene, un ultimo piano di ristorazione. Sul sito della società di scopo si legge che il «Valle Aurelia Mall non sarà solo un centro commerciale … ma centro polifunzionale con attività distinte».

 

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Veduta del cantiere da cui sorgerà il nuovo centro commerciale (foto Marco Marchese)

NON LA PENSANO COSÌ gli abitanti riuniti nel comitato di quartiere, che si battono da sempre contro quest’opera. Si incontrano nello stabile dell’Ex51, il centro sociale della zona. «Del famoso “centro polifunzionale” quel che rimane è ben poco di “poli” e tutto di commerciale. Fra i servizi per il quartiere dovevano esserci la piscina, aree verdi e il fantomatico asilo, poi tutti depennati. L’unica opera di interesse pubblico sarà la ristrutturazione della fornace». Sara fa parte del comitato, solleva dei dubbi sul futuro dell’edificio: «Il comune poi dovrebbe affidare lo spazio con un bando, ma spesso diventa un alibi per privatizzare la struttura, dato anche il debito comunale. Noi ci avevamo immaginato una sala prove, il museo della fornace e della storia della valle». La nuova amministrazione 5 stelle si dice contraria al consumo di suolo, ma «non ha una linea politica, per loro se l’opera non infrange alcuna regola non c’è problema». Urbano conosce bene il quartiere, è un militante dell’Ex51: «C’è una volontà precisa: prima si lascia uno spazio per anni nel degrado totale, poi si tira fuori dal cilindro il coniglio del centro commerciale per risolvere tutti i problemi, invece di pensare a un altro tipo di valorizzazione».

EPPURE MOLTI NEL QUARTIERE, soprattutto gli ultimi arrivati, sono convinti che il centro commerciale porterà dei benefici. Aida gestisce l’edicola del viale da una decina d’anni: «Qui era una discarica a cielo aperto, almeno ora avremo un posto dove passeggiare, e magari porterà un po’ di lavoro per i giovani del quartiere. Temo solo per il traffico». Carlo vive qui da vent’anni, ha un’aria spazientita: «Dice la gente dei negozi “ce rovinano!”, ma le chiacchiere se le magna er vento, qui ce sarà più lavoro per tutti, verranno i turisti. Già ce li abbiamo i parchi e il comune non ha i soldi per mantenerli». Ivana fuma una sigaretta sulla porta della tintoria dove lavora da 50 anni, ha un’espressione rassegnata: «Era un borghetto di operai, onesti… adesso non c’è più niente, s’è disciolto tutto il rapporto umano che c’era… e il centro commerciale riflette ’sto fatto. Il progetto ce sta da 40 anni e l’hanno sempre boicottato, ma ora non s’è fatto quasi niente, stamo allo sbaraglio».

Questo articolo è uno dei lavori finali del corso su «Il reportage sociale» tenuto da Giuliano Battiston e Massimo Loche alla Scuola del Sociale di Roma