Un grande museo rinasce. Dopo sei anni di lavori e novanta milioni di spesa, oggi riapre al pubblico il Musée de l’Homme di Parigi, negli spazi, rinnovati, dell’ala Passy del Palais de Chaillot al Trocadéro (costruito per l’esposizione universale del 1937), dal ’38 sede dell’istituzione fondata da Paul Rivet, che sarà poi tra i grandi protagonisti della Resistenza, con la «rete» nata all’interno del museo.

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È un luogo-laboratorio, dove lavorano 150 ricercatori – tra discipline scientifiche e umanistiche – e che su 2500 mq presenta una selezione di circa duemila oggetti delle sue straordinarie collezioni (settecentomila reperti preistorici, trentamila insiemi di antropologia), con l’aiuto di un’ottantina di video, oltre a film e possibilità di fare esperienze attraverso i cinque sensi. È stata rivalorizzata anche la grande vetrata originale, che si apre sulla Senna e la Tour Eiffel.
Il nuovo museo rispetta l’impegno di Rivet, che aveva voluto un approccio globale, per mostrare «l’Uomo come un tutto indivisibile nello spazio e nel tempo», nelle sue dimensioni biologiche, culturali e sociali, in relazione con l’ambiente. Ai tempi della chiusura, era scoppiata una polemica sulla conservazione delle collezioni, parte delle quali – le opere etnologiche extra-europee – sono state affidate al Musée du Quai Branly (e quelle europee al Mucem di Marsiglia). Una rivalità insensata, ha spiegato Bruno David, presidente del Musée national d’Histoire naturelle, di cui fa parte il Musée de l’Homme: «C’è complementarietà, il Quai Branly è orientato verso la cultura, il Musée de l’Homme più interessato agli aspetti biologici».

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In scena, nell’edificio rinnovato, va la storia dell’Uomo lungo l’arco di sette millenni, «come fosse un racconto», ha affermato la direttrice del progetto di Cécile Aufaure. Il percorso dell’esposizione permanente è diviso in tre parti, che rispondono alle tre grandi domande: Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo? «Abbiamo un’origine biologica, ci inscriviamo in una storia evolutiva e culturale e questa storia ha trasformato la natura e noi stessi»: ha riassunto così quegli interrogativi Evelyne Heyer, curatrice della parte espositiva, mentre Hollande, ha definito il museo «un inno all’unità dell’umanità» (pensando alle ultime miserie della politica francese e alla polemica sulla «razza bianca»).

Dunque, chi siamo? Siamo «corpo», raccontano gli scheletri, i teschi, le parti umane ritrovate, così come le cere anatomiche storiche di varie epoche: sono esposti i teschi originali dell’uomo di Cro Magnon, che risale a 28mila anni fa, esempi dell’esemplare di Neanderthal, il cranio costellato di conchiglie della dama di Cavillon e altri esempi unici del lontanissimo passato. Siamo anche «animali» dicono le successive teche, che mostrano altri esseri viventi, che hanno influenzato – e sono stati a loro volta – influenzati dall’uomo. Ma siamo anche dei «pensatori» (c’è il cranio di Descartes), con la coscienza della morte. E, soprattutto, siamo «esseri sociali» che, nella diversità «non in contraddizione con l’universalismo» ha precisato Bruno David, abbiamo elaborato culture differenti.

«L’idea è incrociare in permanenza gli aspetti culturali e sociali con quelli biologici – ha ribadito Aufaure – analizzare la natura complessa dell’essere e il contesto nel quale evolve». Per esempio, viene illustrata la nascita con tutti i suoi riti, ma anche la morte e la varietà con cui è stata esorcizzata. Una messa in scena monumentale con un centinaio di busti ricorda la varietà biologica e culturale degli esseri umani, in una parete si possono tirare alcune «lingue» per ascoltare la «babele» di idiomi e si può anche entrare in una lingua in resina alta 3,5 metri per godersi i canti del mondo intero. Tra gli aspetti ludici, c’è la possibilità di vedere il proprio volto trasformato in un esempio di Neanderthal.

Il percorso racconta i tempi lunghi dell’evoluzione, che non è mai stata una storia lineare, le grandi migrazioni, il passaggio progressivo verso un’economia di produzione. La rivoluzione del neolitico e l’invenzione dell’agricoltura, diecimila anni fa, mostra l’interazione tra uomo e natura, che comporta trasformazioni reciproche.

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Il musée de l’homme com’era

Dove andiamo, infine? L’ultima parte affronta le questioni di attualità, l’impatto ecologico dell’attività umana, gli effetti socio-culturali della mondializzazione, i margini di adattamento della specie umana agli ambienti che ha essa stessa contribuito a creare, il potere delle tecnologie, le minacce sulla biodiversità, le nuove malattie, il «transumanismo» attuale, la crisi climatica. Si può salire su un autobus senegalese degli anni ’60, per un viaggio immobile nelle strade di Dakar.
Oltre agli assemblages dell’artista contemporaneo Pascale Marthine Tayou, la mostra temporanea della riapertura è dedicata alla storia del Musée de l’Homme, all’avventura del cantiere del rinnovamento degli spazi e dell’offerta museale, con una riflessione sul senso delle collezioni e sulla loro conservazione.
Nel vecchio edificio, i resti umani erano in mostra. Oggi, un comitato di etica ha determinato cosa davvero fosse possibile esibire della collezione di antropologia biologica del museo, per non contravvenire alla sensibilità attuale, ormai codificata in testi di legge. La Francia ha già restituito le teste Maori alla Nuova Zelanda, le spoglie della «Venere ottentotta» al Sudafrica o all’Uruguay quelle del capo indiano Vaimaca Peru.
Per l’inaugurazione, sono stati pubblicati anche due volumi, Une belle histoire de l’homme (Flammarion) e Devenir humain (Autrement).