L’ultima volta che ho visto Biancamaria Frabotta è stata opposta alla prima. C’è un inizio e c’è un termine nelle relazioni tra persone. E poi c’è un sempre. Il 15 aprile a casa sua, in via Pistoia, abbiamo parlato di amore, soprattutto di amore coniugale (uno dei motivi cardine della sua poesia). Non ci vedevamo da tempo, ma è stato un riflesso incondizionato. Mi ha mostrato in dettaglio la sua casa allargata, l’appartamento con il terrazzino acquistato da poco accanto a quello in cui storicamente abitava. Lo studio di Brunello, il pianoforte, il ritratto appeso al muro per ispirare la musica di suo marito. È stato un modo oggettivo per figurare la costruzione nel tempo di un patto di onestà, il secondo matrimonio così amato. Poi mi ha fatta sedere sul divano nello studio, lei sulla poltrona, come tante volte, come sempre, in modo completo. Mi ha raccontato di lei da ragazza, del primo viaggio a Londra negli anni sessanta con la minigonna e della preoccupazione di sua madre nel saperla da sola. E abbiamo parlato della paura che gli uomini possono suscitare, di custodia e segretezza. Biancamaria era bellissima, lo sanno tutti, lo dicono le fotografie. Come questa splendida qui sopra, del 2001, scattata da un allievo di cui Bianca aveva còlto subito il talento schivo, Andrea Annessi Mecci. La bellezza nelle donne ha un prezzo, lei si accorgeva di quel prezzo anche per le altre.
La fortuna era stata incontrare Brunello Tirozzi, un uomo che non aveva ostacolato il suo percorso ma l’aveva lasciata brillare. Che aveva accolto il suo essere più cose, quell’essere «troppo» dell’essere donna di cui in Quartetto per masse e voce sola aveva condensato l’evidenza: «Ero considerata troppo donna, troppo femminista, troppo intelligente, troppo viscerale, troppo accademica, poco accademica, troppo bella, perfino troppo alta. Insomma ero ‘troppo’ tutto». Anche Brunello, più tardi, sarebbe diventato poeta. Perché Bianca aveva un dono sopra gli altri: quello di accorgersi e di fare sbocciare la diversità. L’ultima volta le avevo detto che la avrei finalmente invitata a Pisa per un corso sulle donne in poesia nel Novecento. Era fiera, mi aveva tirato fuori dalla vetrinetta un po’ di libri: le due edizioni di Donne in poesia, La politica del femminismo, Femminismo e lotta di classe editi da Savelli dal 1976; The Defiant Muse, antologia di poesia femminista italiana dal medioevo al presente, concepito grazie a Keala Jewell in America nel 1986 quando in Italia non lo voleva nessuno. Non era sicura di venire in Normale, era stranita all’idea che avessi pochi studenti. Meravigliosi allievi, di eccellenza. Ma Biancamaria, che dal 1970 circa aveva sfornato generazioni di laureandi, era abituata a «troppi» allievi. Negli ultimi attimi, sulla porta di casa, mi ha avvertita di stare sempre attenta agli uomini. E mi ha fatta ridere, perché sino all’ultimo è stata in grado di sorridere e far sorridere. Di un riso spesso, pieno di levità e di significati.

Scelsi di laurearmi con lei
La prima volta: autunno del 1999, Facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza. Sono io che ho visto lei prima che lei vedesse me. Era biondissima, alta. La ricordo molto severa, e lei rideva di questo mio ricordo perché poi i nostri rapporti sono diventati così abituali da smentire ogni prima impressione. Mi disse anni dopo che Walter Binni da ragazza aveva creduto in lei per la sua testa. Ma che per essere presa sul serio dai colleghi – lei che era molto bella ma anche dolcissima – in una certa fase sul lavoro aveva dovuto essere austera. Oggi che sono in accademia non fatico a crederle. Quando è andata in pensione nel 2016, ho raccontato nel Libro degli allievi come sono andate le cose quando ho scelto di laurearmi con lei e non con altri nel ex-dipartimento di italianistica, colpito da diatribe e invisibili coltelli. A ridosso degli anni in cui impazzava la polemica Asor Rosa-Ferroni, e si erigevano muri di plastica tra dipartimenti. Biancamaria era rimasta nel dipartimento di Ferroni, ma sorrideva e salutava tutti. Da lei andavano gli allievi più irregolari, meno accademici in senso tradizionale. Soprattutto andavano le allieve che non sceglievano un ordinario maschio, sfruttando o negando la propria femminilità.
Le proposi nel 2003 di laurearmi sulla linea lombarda e un poeta vivente. Fu forse la prima tesi di laurea dedicata a un progetto lungimirante: quello di assegnare tesi sui poeti viventi. Ne sarebbero venute tante di tesi di quel genere. Ma la questione meno scontata è che mi lasciò scegliere quello che mi ero messa in testa: lavorare sull’ultimo a venire della linea lombarda, Fabio Pusterla. Le sue correzioni erano puntuali, rigorose, spiazzanti. E imparai da quel rigore soprattutto un metodo. Non tanto cosa era giusto o sbagliato studiare ma come, in infiniti modi, la letteratura poteva essere studiata. Che significava intessere dati, procedere per ragionamenti contrastivi, intrecciando biografia, critica, storia, interpretazioni. Con un presupposto imprescindibile: l’ascolto della voce di un poeta al presente e la presenza nello spazio e nel tempo del testo. Negli anni dopo la laurea iniziai a girare per archivi del Novecento, ogni volta le portavo qualcosa di nuovo: le traduzioni inedite di Sereni, la traccia del bacio della prima fidanzata di Caproni su un libro di Jouve, gli appunti inediti nella biblioteca del poeta livornese (lei che aveva aperto la pista agli studi sul «tutto Caproni» con Caproni. Il poeta del disincanto, 1993). C’è ancora da qualche parte tra le sue carte una lettera incredibile in cui mi difese con fermezza con Pier Vincenzo Mengaldo quando quel mio ritrovamento sereniano stava per essere affidato a un allievo padovano, rischiando di buttare al vento tre anni di nostro lavoro.
Continuai per anni, quasi ogni giorno, a collaborare con la sua cattedra. Non mi chiedeva mai nulla, le chiesi io se potevo provare ad aiutarla per gli esami, per le tesi. Avevo brama di imparare quel mestiere da lei e non da altri, anche se l’università non dava nessuna possibilità di ingresso. La osservavo nel suo studio al terzo piano durante le sessioni di esami, facevo domande sottovoce a studenti che avevano poco meno della mia età. Mi dava fiducia, come forse a sua volta ne aveva ricevuta da Binni, finiti gli esami andavamo alla mensa di Fisica a trovare Brunello. E imparai un mestiere per sua sola generosa spontaneità, un mestiere che ci sono voluti anni per mettere in pratica.
Nel 2009 avevo vinto un assegno di ricerca. Alcuni uomini che lasciarono sulla sua porta e in presidenza considerazioni anonime sulla nostra vita professionale e privata non vennero mai allo scoperto. Pagarono, pagammo, soprattutto le donne. Fummo costrette a dividere i nostri cammini, a non lavorare più troppo insieme.

Maestra della differenza
Devo alla mia testardaggine l’essere andata a fondo per fare lo stesso mestiere (altrove), ma devo a lei l’aver accolto la mia passione. L’avermi saputa scoprire uguale e diversa. Per anni sono stata sua allieva. Biancamaria ha avuto allievi maschi ma anche molte allieve donne. Sul Domani qualche settimana fa, Alessandro Giammei ha parlato del magistero di una maestra come dono prezioso improntato sulla differenza, non sulla omologazione. Questo era il presupposto, che in moltissimi in questi giorni hanno ricordato: Bianca non cercava vassalli, nessuna strategia di potere. Con le allieve rispetto agli allievi però c’era anche dell’altro e capii più tardi che era la lezione di Julia Kristeva. Era così contenta quando tradussi l’autobiografia di Julia. Il rapporto con le donne era più misterioso, più difficile. Lei lo sapeva, non mentiva a noi e a sé stessa. Un legame imprendibile e metamorfico, improntato su una doppia possibilità: diversità e rispecchiamento. Nessuna sua allieva è stata uguale a Biancamaria: impossibile! Lei cercava in noi donne il saperci distinguere. Ma al contempo, sarà stato perché era cresciuta con due amatissime e diverse sorelle, in ognuna di noi Bianca ha saputo proiettarsi e vedere una parte sfuggente di sé. Per questo ci chiedeva molto, forse di più. Come studiose, poete, come donne. Ed era anche il suo modo sincero e forte di difenderci, di dirci che occorreva rialzarsi da sole. Come quella volta che all’Università complutense cadde dalle scale ma non volle che nessuno la aiutasse a sollevarsi da terra.
Martedì prossimo, per «Lo Specchio» Mondadori, esce l’ultimo libro di poesie di Biancamaria Frabotta: Nessuno veda nessuno. Con questo libro Bianca sentiva di essere stata capita, questa volta più di altre, come autrice e come donna. Non era un fatto da poco per lei essere capita. L’ultima volta mi aveva mostrato la prova di copertina e mi aveva letto ad alta voce la poesia per la quarta. Una profezia o quasi, in lei che non aveva mai facili soluzioni ma solo domande aperte. La sua poesia si era mossa in silenzio tra le aule dell’università e mai ne parlava con i suoi studenti. Poco tempo fa mi aveva scoperta a mia volta e inaspettatamente poeta, ma non era troppo stupita lei che sapeva cosa accade nel sottosuolo del tempo. Mi aveva riletta più volte, e le avevo portato anche alcuni libri di poesia appena usciti nella collana Donzelli da me diretta. Leggeva tutto sempre, e mi diceva: «ogni poeta ha bisogno di attenzione, ogni poesia di cura».
La poesia di Biancamaria Frabotta è stata una relazione amorosa tra conoscenza e mondo. La sfida più grande sarà portarsi dietro, di lei, la capacità adamantina di andare oltre la superficie delle cose. Lei che aveva superato subito l’apparenza scegliendo di me il nome, prima del cognome. Non è un fatto privato, lo faceva con tutti. Ma non è un fatto scontato con tutti. Superare, come scrive in una delle nuove poesie, l’invidia che suscita «chi vive / in una bellezza perenne». Aprire nell’ipotesi di essere unici per molti, come lei è stata. Sapere che la poesia è ritorno inaspettato e ignoto di uno solo (una sola), non qualsiasi, a una comunità più umana.
Il mio nome è Nessuno
gridò l’accorto eroe
al Ciclope cui accecò
l’unico suo occhio.
Per vendicare i compagni
stritolati dai denti
dell’ottuso carnivoro
nessuno veda nessuno.*

*versi tratti da Nessuno veda nessuno di Biancamaria Frabotta, © 2022 Mondadori Libri S.p.A. Per gentile concessione degli Eredi e dell’editore.