Il suo primo concerto, Augusto, lo tenne a otto anni al teatro Magnani di Fidenza, per l’Avis, suonando al sax contralto Il Battagliero, valzer amatissimo nelle balere e che richiede una buona tecnica di fiato e labbro. Lo so, non è come dire che uno ha suonato alla Società del Quartetto, ma che ci volete fare, eravamo ragazzi di campagna. Comunque fu un successo e poco dopo Augusto si presentò agli esami di ammissione al conservatorio di Piacenza. Avrebbe voluto continuare con il sax, ma lì la cattedra non esisteva. In commissione c’era Francesco Ranzani, allora primo oboe nell’orchestra del teatro alla Scala, che domanda ad Augusto «Che strumento vorresti suonare?». «A parte organo, pianoforte, flauto e clarinetto, tutto». «E l’oboe ti piacerebbe?»…

Lo presero, ma c’era un problema. Aveva appena finito la terza elementare e per iscriversi avrebbe dovuto aspettare la prima media. La segretaria, senza farsi troppo pregare, lo inserì in un fantomatico corso propedeutico. Uscito di scuola, attraversava a piedi Fidenza, saliva sul treno, lì mangiava il sostanzioso panino che nostra madre aveva preparato e andava a lezione. Il primo anno i suoi viaggi coincidevano con i miei e quelli di altri compagni più grandi. Dal secondo, a nemmeno dieci anni, cominciò a fare l’andirivieni da solo. Oggi per una cosa così ti toglierebbero la matria potestà. Allora, era il 1975, le madri erano meno ansiose, l’Italia e le teste degli italiani più aperte.

Casa nostra, ormai, era un incrocio fra una succursale di conservatorio e una stazione di treni con uno che torna il lunedì e giovedì alle 19, un altro il martedì e venerdì alle 20, il terzo ogni giorno a orari diversi. L’andirivieni era aggravato dal fatto che l’ultima corriera per casa nostra partiva alle 18:15, per cui Giacomino ogni sera veniva ad aspettarci nella sala d’aspetto che in inverno era gelida. Lo trovavamo sempre incollato all’unico termosifone. Né lui né Luciana si sono mai lamentati per un treno perso, le cene a orari differiti, lo studio a ore impensabili.

L’anno in cui sostenni l’ottavo di pianoforte, dove si devono preparare 48 preludi e fughe del Clavicembalo Ben Temperato di Bach, oltre al resto, gli ultimi mesi studiavo fino alle due del mattino perché di giorno frequentavo l’università. L’unica volta che mia madre mi disse che forse era il caso di smettere era perché secondo lei avevo bisogno di riposare. Ormai anche il loro sonno si era adattato alla musica perenne, o forse erano così stanchi che avrebbero dormito anche se uno di noi avesse suonato le percussioni, che è tutto dire. Quando Giacomino tornava dalla fabbrica e trovava uno che suonava in cucina, l’altro in mansarda, un altro ancora in una camera da letto, si cambiava e andava a godersi il casino dall’orto dove, nei ritagli dei ritagli di tempo, curava piselli e zucchine. Per far fronte all’acquisto degli strumenti si era costruito un secondo lavoro, quello di trasportatore e mediatore di foraggi e legna, che praticava negli orari e nei giorni extra fabbrica.

Fare musica ha un prezzo anche in termini economici. Il mio verticale era costato, nel ’68, 280mila lire, circa il quadruplo dello stipendio di Giacomino di allora. Pietro per i primi anni aveva suonato con un violino prestato dal conservatorio, ma per migliorare gliene serviva uno buono. Si era da poco iscritto a liuteria quando Giacomino e Luciana decidono di fare il grande passo e comprare uno Scrollavezza. Arrivati di fronte alla casa del liutaio, mio padre vede una concessionaria della Ford. Da anni sognava un’auto nuova e nostra, perché la vecchia Bianchina era dei nonni. Decide di entrare e acquista una Fiesta. A Pietro vengono le lacrime agli occhi perché pensa «Addio violino».

Giacomino se ne accorge, ma tace. Bussa alla porta di Scrollavezza e gli dice «Bongiorno maestro. Volevo sapere se c’ha un violino par mio figlio». Il liutaio: «Adesso no. Sarà pronto fra un anno». «Va bene. Io però adèsa non c’ho i soldi par un anticipo. Come facciamo?». «Mi basta la sua faccia». Quel violino costò un milione e mezzo di lire e nell’anno di interregno Scrollavezza prestò a Pietro un altro strumento, senza chiedere una lira. Fra gente che aveva strappato i sogni con i denti ci si intendeva.
Quando vedi due che, per permetterti di studiare, rinunciano a tutto, vacanze, divertimenti, riposo, cure, non riesci a restare con le mani in mano. Io e Pietro ci eravamo trovati una discreta fonte di reddito, i matrimoni che, musicalmente parlando, si assomigliano tutti perché ti chiedono sempre le stesse cose, Ave Maria di Schubert, Adagio di Albinoni, marcia di Mendelssohn.

Poi ci sono state le estati in cui tutti e quattro abbiamo fatto di tutto: raccogliere pomodori, camerieri, baristi, scaricatori al mercato, assistenti nelle colonie estive e lì si viveva una dicotomia formativa. Da una parte si era strappati fisicamente dallo strumento, consapevoli che poi avremmo dovuto studiare il doppio per recuperare. Dall’altra le menti e i corpi facevano esperienza di mondi e lavori diversi, di fatica fisica e mentale, di rapporti padrone/dipendente, lavoratore/cliente. La sensibilità musicale ci faceva vedere con lenti di ingrandimento le durezze del mondo che poi si riassumono essenzialmente in due cose, privilegi e ingiustizie. Ci faceva apprezzare anche la bellezza di poter investire ore su una fuga di Bach, una sonata di Schumann, un concerto di Mozart.

Essendo la musica una disciplina in cui, quando trovi l’insegnante ideale, lo segui anche all’altro capo della penisola, a un certo punto la situazione era questa. Augusto, terminate le medie, viveva praticamente al conservatorio di Piacenza dove sei giorni a settimana seguiva le lezioni di oboe, musica corale, musica d’insieme, orchestra e composizione. Io mi spostavo fra Parma per l’università e il conservatorio di Lucca dove studiavo con la grande Rossana Bottai. Pietro, diplomatosi in liuteria, viveva a Firenze dove studiava viola e si manteneva suonando e facendo mille mestieri.

Di lì a poco anche il quarto fratello, Saverio, si dette alla musica il cui cromosoma ormai circolava liberamente in famiglia. All’esame di ammissione alle medie del conservatorio di Parma, per provargli l’orecchio, gli chiesero di cantare qualcosa. Lui intonò Bella ciao. All’uscita un esaminatore gli disse: «Ma di tutte le canzoni che ci sono, proprio quella dovevi scegliere?». «Mi è venuta in mente quella lì». Data la conformazione del labbro, lo destinarono a corno e in casa entrò uno strumento della famiglia degli ottoni.

A tenere insieme tutto quell’andirivieni fra lezioni, stazioni, concerti, scuole e strumenti diversi, figli ognuno con il proprio carattere, esigenze, inciampi e aspirazioni, era la Luciana. Era lei il direttore d’orchestra che, alzandosi ogni giorno alle cinque se non prima, gestiva casa, famiglia, panini per i nostri pranzi in treno, il suo lavoro di sarta e, con i nonni, il negozio e l’osteria. Gli inizi musicali di Saverio coincidono con gli ultimi anni di studio miei e di Pietro, che ci diplomiamo nell’83, e di Augusto che termina l’anno dopo. C’è una foto che ci immortala tutti e quattro nel casone musicale con i relativi strumenti. La vollero fare Giacomino e Luciana per suggellare quel traguardo. Sui loro visi si legge la soddisfazione, ma le rughe e le occhiaie ricordano ogni sforzo di quell’impresa. Sembrava che gli anni più difficili fossero finiti. Il destino non la pensava così e si mise di traverso. Per uno di noi in modo davvero cattivo.

3.continua