Chi sono io? Dipende da chi me lo chiede. Per una pubblica amministrazione sono un numero di carta d’identità, un numero di passaporto, un numero di previdenza sociale. Sono anche un nome e due cognomi, un sesso – femminile -, data e luogo di nascita, indirizzo di residenza; sono dati circostanziali eppure formano la mia identità, mi definiscono.

Quindi la mia identità ha poco a che fare con me, mi è stata data e l’ho accettata – come facciamo tutti o quasi. È forse l’opposto della mia individualità, la nega, una serie di categorie che mi indicano e classificano, come il marchio inciso da un ferro arroventato sul dorso di una mucca consente di distinguerla da un congenere o diverso proprietario.

Quanto a me, invece, chi sono io per me stessa? Io, senza di più, senza nomi o cognomi, un monologo interiore che interrompe solo le ore di sonno e che è andato avanti nella mia mente da più di mezzo secolo in un linguaggio che è stato insegnato, quindi anche i miei pensieri non sono interamente miei. Eppure i miei ricordi mi appartengono.

Tutto questo sono io, allora, i ricordi delle esperienze che ho vissuto, digeriti e modificati dal mio cervello, un po’ come un ruminante mastica e digerisce erbe mediche e le trasforma in qualcosa d’altro. Vi è un contrasto tra la mia memoria e quella di chi ha condiviso con me le stesse esperienze, fino ad arrivare ai miei genitori, i miei fratelli; più di una volta sono stata sorpresa nel verificare che i loro ricordi, sia pure degli stessi fatti, non coincidessero affatto con i miei.

Perciò, in tutta onestà, sono costretta ad ammettere di essere, in larga misura, una finzione che mi sono raccontata e che seguito a raccontarmi intorno a un personaggio che rappresento dinanzi alla maggior parte delle persone, o multipli personaggi, perché io sono molte: una vicina cortese che parla del tempo con un altro vicino quando ci si incontra in ascensore; una cliente indignata mentre discute al telefono di una fattura con la compagnia del gas; una zia meravigliosa che fa un regalo a suo nipote; una pettegola che sparla intorno a un tavolino con le sue amiche; una scrittrice colta ed educata, tutta sorrisi, che discute con chi la legge in un circolo di lettura; una strega, un’arpia che lancia secchi d’acqua ai giovani che si scatenano e bevono birra sotto la mia finestra alle tre del mattino; una presunta terrorista quando mi tolgo la cintura e le scarpe prima di attraversare l’imbarco in un aeroporto, tutte queste sono io, tutte e nessuna; rappresento tutti quei ruoli volentieri, quasi inconsciamente.

C’è però un documento che mi chiede di incarnare ciò che mi infastidisce e ripugna e che risponde alla mia identità geografica: fai la spagnola, mi dice qualcuno, no, fai la catalana, mi dicono altri. Ma io mi rifiuto di essere patriota, e non mi sento più fiera di essere catalano o di essere spagnola che di vivere al terzo piano piuttosto che al secondo o al primo; mi sembra altrettanto irrilevante e accidentale. Riconosco che non mi emoziono né con l’inno né con la bandiera, né con il folklore della mia terra. Di più, sono allergica alle bandiere e alle patrie, ora così di moda, e per questo motivo mi chiamano traditrice. Quindi, io sono questo: una traditrice