Il ruolo dell’allenatore, la sua formazione, la capacità di comunicare, di saper insegnare una finezza calcistica, dalle squadre di serie A fino ai ragazzini dei campetti di periferia. In Italia chi provvede all’aggiornamento dei 72 mila allenatori che operano a vari livelli nel mondo del calcio? Nessuno. Eppure ognuno di loro paga una quota annuale alla Federcalcio, che incassa e li lascia alla loro sorte. Chi accede al supercorso di allenatore a Coverciano? Solo i calciatori, ma saper giocare a calcio non significa saper insegnare la didattica del calcio. Ne parliamo con Felice Accame, dal 1989 coordinatore del Centro Studi del Settore Tecnico della Federazione italiana gioco calcio (Figc) e docente di Teoria della Comunicazione presso la Scuola Allenatori di Coverciano. Felice Accame ha pubblicato tra l’altro L’analisi della partita di calcio, inoltre Prima del risultato. Recentemente Il linguaggio come capro espiatorio dell’insipienza metodologica (Odradek).
Il calcio rimane più arretrato rispetto agli altri sport?
Non è una situazione tipica del mondo calcio, in ogni ambito del sapere il reparto delle soluzioni semantiche rimane leggermente arretrato rispetto alle scoperte delle discipline. Il calcio è arretrato per struttura e convinzione, altri sport hanno conosciuto momenti più innovativi. La maggior parte delle metodiche di allenamento del calcio proviene dall’atletica leggera. Sul finire degli anni ‘60 inizio ’70 Enrico Arcelli costituì una sorta di rivoluzione nella metodologia dell’allenamento, facendo correre i calciatori su lunghe distanze o lungo i pendii, salite e discese, l’interval training è stato utilizzato prima nell’atletica leggera e poi nel calcio.
Perché questo ritardo?
Nel mondo del calcio c’è una parte conservatrice molto evidente, legata agli aspetti socio-politici del sistema, tutti i processi di formazione sono molto più arretrati rispetto a ciò che potrebbe soddisfare le esigenze attuali. Prendiamo le tecniche di addestramento del calciatore, ritengo che si possa fare molto meglio con le conoscenze che abbiamo nell’ambito delle neuroscienze, ci illuminano a riguardo delle zone del cervello che governano determinate attitudini, come il gesto tecnico, la lateralità (l’uso prevalente di una parte del corpo rispetto all’altra, ndr). Oggi in serie A abbiamo fior di giocatori importantissimi, che hanno a disposizione una scelta sola per la battuta di un cross o di un passaggio. Se si fosse provveduto a tempo, quando la plasticità del cervello lo permetteva, con alcune tecniche la lateralità sarebbe potuta essere distribuita meglio tra piede destro e sinistro.
È solo un problema di calciatori?
C’è un aspetto legato alla formazione del calciatore, che a sua volta rimanda a quella degli allenatori. Tutto il sistema calcistico italiano, ma non solo, è dilaniato da una contraddizione, si attribuisce al tecnico una capacità che gli deriverebbe dall’aver praticato il calcio. Chiunque di noi sa che saper fare una cosa è un tipo di competenza che è completamente diversa dall’insegnare a saperla fare. Qualsiasi grande calciatore sa eseguire cose che richiedono un particolare rapporto con la palla, e noi spettatori rimaniamo affascinati dalla magia di quel rapporto, ma se chiediamo come ha fatto a farlo, o gli chiediamo di spiegarlo a un insieme di ragazzini che devono imparare come diventare calciatori, avremo di fronte un calciatore che non ne sa assolutamente nulla. È ovvio, saper fare una cosa è completamente diversa da sapere come ha fatto a farla. I calciatori eseguono delle giocate inconsapevolmente, ma quando cambiano mestiere, da calciatore ad allenatore, non si trovano più nella condizione di poter giocare la palla.
Ritieni fondamentale che un allenatore sia stato un calciatore?
No, può guadagnarci se ha l’umiltà di capire che il suo sapere di allenatore è completamente da ricostruire, perché a quel saper fare va aggiunta una competenza alla quale nessuno provvede. Questa è stata la mia battaglia nei 27 anni in cui lavoro al Settore Tecnico di Coverciano, per far sì che la competenza didattica potesse aumentare per caratterizzare il futuro tecnico.
Per un l’allenatore saper insegnare è un elemento prioritario?
Si, se per ragioni legate semplicemente al sistema mercantile, perché alla fine è una ragione puramente economica, vengono presi ex calciatori e spostati immediatamente al settore giovanile, non si capisce come possano garantire le qualità didattiche.
Alcuni ex calciatori, come Inzaghi al Milan, sono arrivati presto ad allenare la prima squadra?
Ai massimi livelli, ti mettono dietro un team di persone competenti e l’urto si attenua, ma quando sei solo, abbandonato nel settore giovanile, se non sei in gamba fai dei guai. A questa scelta affluisce una cecità voluta, perché la maggior parte delle società professionistiche, scelgono il nome che fa da richiamo, immagine e comunicazione, un tipo di opzione che viene totalmente avvallata dalla Federcalcio, nel cui consiglio dalla legge Melandri siede il sindacato calciatori, che per l’accesso al corso per allenatori a Coverciano tende a favorire gli ex calciatori, privilegiati dall’alto punteggio acquisito per essere stati calciatori, ben poco viene concesso a coloro che hanno acquisito un’esperienza sul campo come allenatori, in quanto a punteggi rimarranno sempre indietro rispetto agli altri. È una palese contraddizione.
Qual è lo stato del settore giovanile?
Non ci sono settori giovanili di lunga durata, vengono avviati e abbandonati dopo due o tre anni, ed è un modo di fare che caratterizza soprattutto le società di calcio che hanno problemi economici. L’Atalanta o l’Empoli, che riservano consistenti contributi finanziari al settore giovanile, hanno bilanci sani. Il settore giovanile è la risorsa fondamentale per una società. È chiaro che c’è un problema di classe dirigente, che si avvicina al calcio da un punto di vista economico con idee molto precarie. Ci sono dirigenti spinti verso questo mondo da tutt’altro tipo di intenti, che possono essere di ordine politico, di immagine e di comunicazione, che non hanno nulla a che fare con un serio progetto proiettato nel futuro. Nel mondo del calcio sarebbe necessaria la formazione dei dirigenti, affinché sappiano scegliere e imporre alla Federcalcio i processi di formazione dei tecnici che si occupano delle loro squadre.
Quanti sono gli allenatori in Italia?
Attualmente abbiamo 83 mila 146 tesserati al Settore Tecnico, sono tutte persone che pagano la tessera annuale, dunque valgono un capitale. Se togliamo 6500 persone che si occupano di questioni mediche, 700-800 direttori sportivi, un migliaio di preparatori atletici specializzati nel calcio, che seguono i corsi a Coverciano, tutti gli altri sono allenatori che vanno dalla serie A alla terza categoria. In tutto il sistema calcio c’è una concorrenza diretta tra circa 72 mila allenatori. Gli allenatori professionisti di primo livello, che si contendono le panchine di serie A e B, sono 772. Sul piano dell’aggiornamento il mondo degli allenatori non riceve niente, come Settore Tecnico riusciamo a fare una riunione all’anno per gli allenatori tesserati in quel momento per una società, ed è il giorno in cui si assegna il premio della Panchina d’Oro, facciamo due o tre ore di aggiornamento e alla fine c’è un dibattito. È l’unica forma di aggiornamento, che a norma di regolamento ogni anno dovrebbe essere riservata a 72 mila persone, che praticamente sono abbandonate.
Le strutture periferiche della Federcalcio cosa fanno?
Provvedono alla formazione di base, sono strutture governate entro certi limiti. Mandiamo un tecnico formato a Coverciano, selezioniamo un docente di teoria dell’allenamento, tutto il resto è affidato ai comitati locali, non abbiamo mai avuto la possibilità di avere gli psicologi dello sport da inviare nei vari luoghi. Abbiamo migliorato la selezione e la formazione da quando alla scuola allenatori è arrivato Renzo Ulivieri, presidente dell’Assoallenatori, ha voluto radunare più spesso i formatori periferici per uniformare i contenuti didattici, ma per il resto è un settore completamente abbandonato. Spesso assistiamo a vasti e rumorosi proclami, si dice che il Settore Tecnico deve essere rilanciato, assumere maggiore rilevanza, cambiare rotta, ma le contraddizioni restano, anzi in questi ultimi anni sono state tolte risorse economiche, perciò è improbabile che le cose possano cambiare in meglio.
È solo un problema economico?
Il problema è politico, la contraddizione di fondo è politica. Non sempre con i quattrini si migliora, anzi a volte si peggiora. Se si sa dove metterli va bene, altrimenti è meglio non averli.
Gli scarsi risultati della nazionale e delle squadre italiane fuori dall’ Uefa e Champions League derivano dalla mancata formazione degli allenatori?
No. Non vorrei tirar fuori teorie marxiane, ma è un problema di prodotto rispetto al risultato. Fino a pochi anni fa un allenatore aveva a disposizione 30-40 giorni per il ritiro precampionato, nel corso dei quali poteva plasmare bene la squadra, se aveva la capacità e i mezzi. Oggi, per incassare qualche euro in più, il ritiro precampionato dura qualche giorno, la molteplicità degli impegni per i diritti televisivi delle partite è tale che di giorni di allenamento vero e proprio se ne facciano pochissimi. Il calciomercato sempre aperto, come una sorta di androne in cui c’è chi entra e chi esce in continuazione, fa sì che non si possa neanche parlare di un lavoro di progettazione. Lo vediamo la domenica sui campi di calcio, il gioco collettivo è ridotto a una somma di individualità, tranne quelle due o tre squadre che riescono a dare un assetto consolidato al proprio gioco, grazie a un rapporto esistente tra staff, allenatore e calciatori, al di là di queste poche realtà la qualità del gioco è scadente. La nazionale può raccogliere molto poco da questo quadro, ci sono squadre che hanno trenta giocatori, quasi tutti stranieri. Il ruolo dell’allenatore della nazionale è molto difficile, reso sempre più difficile dal rapporto tra le esigenze del selezionatore e quelle dei club, che stentano a dare i propri calciatori alla nazionale, atteggiamenti che influiscono non poco sulla prestazione del calciatore, che in nazionale è chiamato a dare il meglio di sé.
Qual è il livello culturale degli allenatori?
Se lamentiamo la mancanza di una capacità didattica nel processo di formazione che li riguarda, dobbiamo anche prendere atto di una carenza nel loro processo formativo. Se oggi gli allenatori sono soltanto ex calciatori, sappiamo anche quanto il calciatore abbia avuto con le istituzioni scolastiche e i processi di formazione un rapporto difficile. Solo la Juventus, e recentemente la Roma, negli ultimi anni si sono davvero preoccupati di far studiare decentemente i giocatori delle giovanili. Abbiamo dovuto imparare esperienze di questo genere dal Barcellona, dall’Ajax, tutto questo è ridicolo. E’ ovvio che nella cultura dell’allenatore vi sono delle carenze, fino a sette-otto anni fa l’allenatore che frequentava il corso master doveva presentare una tesi scritta, per molti di loro erano dolori, il rapporto con un computer era di là da venire. Oggi la situazione è un po’ cambiata, quando insegno in aula vedo che il rapporto che gli allenatori hanno con un portatile o un tablet è cambiato, però rimane il fatto che determinate discipline sono totalmente da scoprire.
Quali?
La psicologia o la teoria della comunicazione, che è la mia materia di insegnamento, affascinano moltissimo, gli allenatore si rendono conto di essere carenti di determinati strumenti, questo è già un progresso. Si rendono conto che guidare una squadra è difficile, ma gli strumenti che ognuno di noi ha per comunicare con gli amici non sono sufficienti per guidare una squadra, per essere una figura carismatica all’interno di uno spogliatoio. Per avere carisma bisogna saperla lunga in materia di antropologia, sociologia, psicologia, e avere qualche elemento sul piano comunicativo. A Coverciano da qualche anno abbiamo cominciato a inserire questi elementi nei processi formativi degli allenatori, ma restano ancora troppo separati dagli aspetti tecnici e dalla metodologia degli allenamenti. Andrebbe integrata la didattica degli aspetti tecnici con le metodiche della comunicazione più opportune, questo salto di qualità è ancora da fare.
Gli esempi di Barcellona, Ajax sono isolati o espressione di una cultura diversa dalla nostra?
Quando i francesi vollero rivoluzionare i loro processi formativi, mandarono alcuni tecnici a Coverciano. Insieme ad altri colleghi provvedemmo a formarli, adattando la formazione alle esigenze del calcio di oggi. I tecnici francesi hanno reimpostato la loro fase di formazione grazie anche all’aiuto del governo, in Francia i Centre de Formation de football sono presenti su tutto il territorio nazionale, i ragazzi partecipano alla parte tecnica, imparano a giocare a calcio, studiano, e poi tornano a giocare nelle squadre dei loro paesi. Da noi questo tipo di integrazione tra sistema calcio, Federcalcio e istituzioni, è letteralmente impensabile.
Le tecniche di comunicazione inserite nel corso di formazione degli allenatori ha sortito qualche miglioramento?
Quest’anno, su proposta di Renzo Ulivieri, è stata fatta una ricerca sugli allenatori, visionando le interviste televisive concesse dai vari allenatori. A mio parere questo è un test insufficiente, a me interessa sapere come comunica la grande base degli allenatori, gli sconosciuti, in fin dei conti me ne posso fregare ampiamente di come comunica un allenatore di serie A, invece la mia preoccupazione riguarda le migliaia di allenatori che ogni giorno comunicano con i ragazzini sui campetti di periferia. Su questi allenatori nessuno fa test.
La soluzione?
Occorrerebbe tornare all’antico, quando la Federcalcio verificava che cosa avveniva sui campi di periferia. Nel 1970 allenavo l’Alcione, una squadretta del quartiere San Siro a Milano, dove ho avuto come allievo Dossena, non avevamo neanche il campo, ci allenavamo al Pavesi, un campo che sorgeva in periferia, al Gallaratese. Un giorno mi accorsi che c’era una persona estranea che osservava, questo tizio rimase per tutto il tempo dell’allenamento. Conoscevo tutti i ragazzi e i loro genitori, ad eccezione di due o tre, ai quali chiesi se era uno dei loro genitori. Alla fine dell’allenamento sento bussare alla porta del mio spogliatoio, si trattava di quel signore che aveva seguito tutto l’allenamento, tale Alghisi, mi disse che era un tecnico federale ed era stato incaricato di seguire i miei metodi di allenamento. Mi fece i complimenti e disse che avrebbe steso una relazione. Allora tutte le società erano obbligate a comunicare alla Federcalcio i luoghi e gli orari degli allenamenti, prima o poi le ispezione capitavano a tutti. Chi oggi volesse resuscitare queste iniziative dovrebbe ricredersi, certo allora c’erano i famosi Nag, i Nuclei di addestramento giovanili, ed erano pochi perché non c’erano tante scuole calcio. E’ evidente che oggi di fronte alla miriade di scuole calcio il lavoro sarebbe enorme, ma varrebbe la pena farlo, anzi dovrebbe essere obbligatorio farlo per ragioni strettamente morali, perché sotto la bandiera del settore giovanile si possono annidare vere e proprie speculazioni economiche, c’è pochissima formazione educativa, l’obiettivo principale è fare tessere e far pagare rette ai genitori dei ragazzi, facendo balenare la speranza insensata di ottenere il campione in casa.
La formazione degli allenatori che operano sui campetti di periferia è un problema centrale?
Le cifre direbbero di sì, parliamo di oltre un milione di ragazzini, che hanno a che fare con 72 mila allenatori, che si accoltellano nella schiena l’uno con l’altro per riuscire a ottenere un posto di lavoro. L’idea di una verifica periodica del lavoro di coloro che svolgono questo ruolo sarebbe opportuna, e non credo di fare una proposta rivoluzionaria, visto che la Federcalcio l’aveva attuata già cinquanta anni fa.