E’ probabile che almeno parzialmente il calcio sfugga alla cosiddetta invenzione della tradizione perché rinasce sempre allo stesso modo: un corso d’acqua, un porto e dei marinai inglesi. Nel qual caso una piccola comunità di scozzesi che alla fine dell’Ottocento scendono il Río de la Plata e si insediano a Buenos Aires nel quartiere della Boca. Già nel 1893 viene fondata la «Argentine Associated Football League» che denuncia una realtà ancora elettivamente esotica ma aperta tuttavia ai praticanti criollos, per lo più quegli immigrati ispanici e italici che corrispondono al longevo stereotipo razzista degli anglosassoni secondo cui l’Argentina altro non sarebbe che una colonia inglese di italiani che parlano spagnolo. I pionieri sono piccolo-borghesi e però integrati progressivamente da proletari o persino sottoproletari, viste le lamentele diffuse nei circoli socialisti e anarchici dove si denuncia il fatto che gli iscritti preferiscano il sabato i ritrovi del tango, le milonghe, e la domenica pomeriggio gli sterri in cui si gioca, non ancora storpiata la parola, al football.
Pari all’Italia, il calcio d’Argentina, ormai professionistico, attinge negli anni trenta il suo vertice organizzativo (un campionato nazionale che solo decenni dopo si sdoppierà nel torneo metropolitano di Buenos Aires) e, come in Italia, al tempo di una feroce dittatura che è quella del generale Uriburu. Non esiste una scuola autoctona del gioco che piuttosto, e tale rimarrà, appare un intermedio fra il ruvido pragmatismo dei gemelli rioplatensi, gli uruguagi, e le invenzioni musicali del calcio brasiliano: resta che saranno argentini, a parte Pelé, i due massimi campioni secolari e dunque Alfredo Di Stéfano, asso anni quaranta del River Plate, vero e proprio hombre orquestra, e neanche a dirlo el pibe de oro, il semidio del Boca Juniors, ovviamente Diego Armando Maradona. Proprio il River e il Boca, che stanno tra di loro come la borghesia dei quartieri alti e il proletariato portuale, dividono la mappa del tifo e la lottizzazione dei campionati vinti che a Baires comprende anche il Racing di Avellaneda, l’Independiente e i rossoblù del San Lorenzo de Almagro il quale annovera tra i propri tifosi in primis papa Francesco ma anche un autore di grande inventiva che al calcio ha dedicato pagine indimenticabili, Osvaldo Soriano: cui si deve la premessa al volume di Osvaldo Bayer, Fútbol Una storia sociale del calcio argentino (traduzione di Alberto Prunetti, Edizioni Alegre, pp. 163, € 14,00), in cui scrive: «Non mi sorprende che nel suo lavoro storico Bayer si occupi di Varallo, Di Stéfano, Sivori, Nestor Rossi, Sanfilippo e Maradona. Albert Camus (…) era stato il portiere dell’Algeri. Diceva che il calcio gli aveva insegnato tutto quel che credeva di sapere della vita. È possibile. Per quanto possa sembrare esagerato, nel rettangolo verde si porta in scena l’imprevedibile dramma della vita. Bayer ci parla di questo. E di alcune cose in più».
Il libro risale al 1990, l’anno dei Mondiali di Roma che l’Argentina, campione in carica, perde contro la Germania Ovest in una finale molto discussa da Soriano medesimo che, seduto in Tribuna Monte Mario, detta meravigliose note di commento ai dimafoni del manifesto. Per parte sua Osvaldo Bayer (1927-2018) è uno scrittore poligrafo e un analista sociale che in Italia assoceremmo a un Corrado Stajano o a Ermanno Rea, suo è il reportage presto divenuto un piccolo classico dell’impegno civile, Patagonia rebelde (Eleuthera 2009): militante libertario e storico del movimento anarchico, esule in Europa durante la dittatura di Videla, il suo Fútbol è la rielaborazione della sceneggiatura dell’omonimo film del 1989, un bellissimo documentario oggi integralmente accessibile in youtube nonostante la qualità deteriorata delle immagini.
Bayer (anche lui un patito del San Lorenzo) si avvale di una sequenza cronologica in rettilineo, grosso modo scandita per decenni, e la integra con una serie di ritratti, di apologhi e leggende peraltro essenziali a ogni metafisica del tifo. Il periodizzamento va dai primordi del fútbol al 1986, l’anno del trionfo dell’Argentina ai Mondiali messicani il cui simbolo è tuttora la manina santa di un Maradona in stato di perfetta grazia che però torna subito a segnare e a sbalordire il colto e l’inclita dribblando mezza squadra dell’Inghilterra. Bayer ha in antipatia il professionismo e il fatto che i campionati anche in Argentina siano regolarmente vinti dalle squadre più ricche e potenti (le cinque compagini bonerensi di cui sopra), egli detesta l’arroganza della più parte dei dirigenti, da sempre responsabili di una demagogia suicida, la stessa che deprime i vivai e nel frattempo gestisce l’esportazione dei grandi calciatori nativi il cui destino è fatale in quanto prevede la palla di stracci, la universidad de la calle, quindi l’esordio in un club autoctono, poi una più o meno effimera affermazione e finalmente la cessione all’estero, con la sola eccezione del River Plate 1942 il cui quintetto d’attacco, detto La Máquina per la implacabilità delle segnature, ha tuttora del mitologico, Muñoz-Moreno-Pedernera-Labruna-Loustau: per stare invece al secondo dopoguerra, se ne vanno fra gli altri Di Stéfano dal River al Real Madrid, Sivori dal River alla Juventus, Angelillo dal Boca all’Inter, Maschio dal Racing al Bologna, Maradona dal Boca al Barcellona, o ancora Zanetti dal River all’Inter.
Bayer non ha certo preoccupazioni nazionaliste, semmai è urtato dalle megalomanie di un ambiente calcistico che si illude (tutto il mondo è paese, sul serio) di poter restare indenne e sostanzialmente impunito a ogni passaggio di fase, non esclusi gli anni della dittatura militare (1976-1983), con il pubblico assente e gli stadi trasformati in macellerie di esseri umani, cui lo scrittore dedica le pagine più intense e autobiograficamente implicate del libro, trattando in particolare i Mondiali del ’78 organizzati e vinti dall’Argentina, detti per proverbio i Mondiali della vergogna: «Televisione a colori per dimenticare l’ignominia dell’ESMA; nuovi stadi per mettere a tacere le grida delle torture e degli stupri; nuove installazioni in aeroporto per lavare la coscienza di una società che si è tappata la bocca. Opere faraoniche in un paese con milioni di persone che vivono in baracche di cartone, senza acqua corrente; in un paese con scuole disastrose e ospedali che cadono a pezzi; in un paese che dieci anni prima aveva iniziato a costruire la propria Biblioteca Nazionale e i lavori erano ancora in corso». Lo stile di Bayer è essenziale, ellittico, ignora la frase tornita e al contrario predilige l’affondo epigrammatico e la rapida inversione, come poi nel caso di un suo diretto erede, Sergio Levinsky, cui si debbono sia la più consonante biografia di Maradona, Una vita presa a calci (Limina 1997), sia il docufilm Il Mundial dimenticato (2011), tratto da Il figlio di Butch Cassidy, un celebre racconto di Soriano. Fútbol ha nei titoli di coda l’elenco dei campioni più amati, quasi a suggello di una storia di maghi, di acrobati, di giocolieri, di clown, di saltimbanchi sognati da bambino: è una storia di lacrime e allegria, di cuori solitari e moltitudini chiassose, è «il circo della gente povera, dei depressi e degli euforici» ma purtroppo, osserva Osvaldo Bayer, è anche «il circo dei ricchi e dei furbi».