Vincolo dei due mandati e alleanze sono le questioni, intrecciate tra loro, attorno alle quali si gioca il futuro prossimo del Movimento 5 Stelle. Gianroberto Casaleggio, che si occupava di tenere a freno quello che chiamava «il pollaio romano», diceva che ogni deroga a una norma equivale al decadimento della stessa. Ma dopo l’evidente aggiramento del dogma del taglio degli stipendi si moltiplicano da dentro il M5S le voci di chi propone che la regola che limita la vita politica di ogni cittadino ad un massimo di due cariche elettive venga rivista. La modifica viene giustificata in nome di problemi pratici prima che teorici. Il vincolo è troppo stringente, ad esempio, per gli eletti nei consigli comunali.

Chiunque nel M5S abbia sperimentato un mandato da amministratore locale e ambisca a portare la sua esperienza al parlamento nazionale oppure a Bruxelles rifiuta di ricandidarsi per non sparare la sua ultima cartuccia elettorale. Ci sono poi i casi degli eletti locali che hanno assunto rilievo nazionale, come la sindaca di Torino Chiara Appendino, la cui storia politica dopo la consiliatura in corso, sic rebus stantibus, sarebbe bella e conclusa.

Poi c’è il vero banco di prova della crisi del vincolo dei due mandati che risiede nell’esperienza chiave delle prove generali di governo pentastellato: l’amministrazione romana di Virginia Raggi. Quella maggioranza poggia su pietre angolari a tempo determinato, tutte al secondo mandato: la clessidra politica della sindaca stessa e dei personaggi più in vista scorre di giorno in giorno. Sarebbe questo il motivo per il quale nonostante odi feroci e dissidi pesantissimi, la maggioranza si tiene in piedi e ingoia ogni boccone come se non ci fosse un domani politico.

Una situazione analoga si verificherebbe nella prossima legislatura. In parlamento, da Di Maio in giù, in molti sperimenteranno gli ultimi anni della loro giovane carriera politica. Due giorni fa Grillo ha ribadito dal blog che la regola dei due mandati non si tocca. Il leader appoggia il suo diktat enfatizzando il ruolo della piattaforma telematica Rousseau che consentirebbe a chiunque di scrivere le leggi e decidere il programma. E che soprattutto, avrebbe la potenza taumaturgica di trasformare ogni ambizioso parlamentare in semplice portavoce a tempo della volontà del mitico «popolo della rete». Ma qui arriva l’intreccio dei mandati con le alleanze.

Decaduto l’amato-odiato Italicum, unico sistema elettorale che avrebbe consentito al M5S di andare al governo senza compromessi, pare proprio che l’impianto della legge elettorale sarà proporzionale. E allora, accetteranno i parlamentari grillini destinati a uscire dalle luci della ribalta di fare ancora il ruolo dell’opposizione testimoniale? Non è detto. Per questo si apre il gioco delle alleanze e si moltiplicano le ipotesi per arrivare nella stanza dei bottoni entro i prossimi 5 anni. Dovesse passare la linea sovranista, con il M5S primo partito e Lega e FdI che superano Berlusconi, l’alleanza «sui provvedimenti» di cui hanno parlato a più riprese sia Luigi Di Maio che il bolognese (vicino a Casaleggio) Max Bugani, si cementerebbe a destra. Ma sempre il caso romano suggerisce un’altra strada. Dopo gli scivoloni a destra e le indecisioni, nella capitale Raggi ha affidato un bel pezzo dell’amministrazione a settori di sottogoverno dell’era rutellian-veltroniana. I grillini da settimane parlano di scouting presso «esperti» e «tecnici», che di fatto relegherebbero la nutrita compagine parlamentare al ruolo di sostenitori di una squadra di saggi, che si suppone destinata a chiedere il voto anche a pezzi di centrosinistra.