Il potere è spesso interpretato come una sorta di monolitica invariante universale che, seguendo un vettore orientato dall’alto verso il basso, sfrutta e opprime i viventi. A partire da Foucault, una visione meno ingenua intende invece il potere come un rapporto complesso e storicamente modificabile di campi di forza. Se questo è vero, allora dove c’è potere c’è contemporaneamente resistenza.

POCHI DUBBI possono essere sollevati circa il fatto che gli animali siano sottoposti a una ferrea presa da parte del potere, a cominciare da quanto accade negli allevamenti intensivi. Quello che, al contrario, è rimasto a lungo invisibile è che i non umani mettono in atto prassi di resistenza contro i dispositivi di smembramento dei loro corpi. Questo è ciò che Animali in rivolta di Sarat Colling (Mimesis, pp. 164, euro 16) riporta nella sfera dell’intelligibilità sociale. Il saggio offre infatti gli strumenti necessari per interpretare correttamente – come fenomeni di resistenza appunto – quanto è comunemente derubricato ad aneddoto insignificante e da ridicolizzare – dalle evasioni alle aggressioni, dalle fughe alle automutilazioni degli animali reclusi.

Arricchendo un filone di pensiero che in Italia è sostenuto soprattutto dal collettivo Resistenza animale, Colling afferma a chiare lettere che, nonostante millenni di domesticazione e selezione di specie e individui docili e a dispetto della sproporzione delle forze in campo, i non umani si ribellano, sono dotati di agency politica, sono anch’essi animali politici. Per evitare fin troppo facili accuse di antropomorfizzazione indebita, Colling si premura di fornirci subito una definizione di ciò che si dovrebbe intendere per resistenza animale: «La resistenza si ha quando gli animali agiscono ripetutamente contro il proprio interesse per sottrarsi a situazioni di oppressione».

A differenza di quanto normalmente si pensa, è il frequente insuccesso degli episodi di resistenza animale – insuccesso tradizionalmente e surrettiziamente utilizzato per sostenere l’incapacità di non ribellarsi dei non umani – ciò che dimostra che proprio di resistenza si tratta. E, aggiunge Colling, anticipando ulteriori obiezioni antropocentriche, non è necessario per parlare di resistenza che questa preveda «una strategia o un processo di autoriflessioni sulle intenzioni»; ciò che conta – e questo vale anche in ambito intraumano – è «il desiderio» di liberarsi «dalla schiavitù, dalla violenza e dalla sofferenza».

L’assunzione di questa cornice di senso fornisce una chiave di lettura materialista della ragione per cui l’industria continua a sviluppare sistemi di contenzione e disciplinamento dei corpi animali. Come l’operaismo ha sostenuto per il rapporto capitale/lavoratori, la costante introduzione di nuovi dispositivi zootecnici va interpretata per quello che è: una risposta tesa a reprimere o a rendere produttivi gli incessanti moti di rivolta della «carne». Il riconoscimento della resistenza animale dovrebbe inoltre sollecitare l’antispecismo a prendere le distanze dal paternalismo che ancora lo caratterizza, lasciandosi alle spalle, per parafrasare Spivak, la retorica dell’uomo bianco che salva gli animali neri dall’uomo nero.

Gli animali non sono senza voce, parlano altre lingue. E, a questo punto, il compito, teorico e militante, che ci sta di fronte, un compito per il quale diventano centrali le riflessioni del femminismo transnazionale e del postcolonialismo, è quello di ripensare le nostre categorie politiche per ridare a loro la capacità di rispondere e a noi la capacità di solidarizzare attivamente con le loro ribellioni.

SE, COME SOSTIENE BUTLER, la politica è alleanza di corpi, performatività collettiva che oltrepassa i confini del linguaggio per lasciarsi percorrere dalla sensualità e dal movimento, le rivolte degli animali richiedono, con urgenza, che si dica che cosa si intenda dire quando si parla di alleanza e di corpi. Non a caso, Harvey, un gallo newyorkese sfuggito dal suo «inferno industriale», si è trovato, «una fredda giornata di novembre», fianco a fianco con i manifestanti di Occupy Goldman Sachs.