Come previsto, il pacchetto di misure varato lunedì dal presidente Nicolás Maduro per favorire «il nuovo ordine economico» in Venezuela – riforma monetaria ancorata alla criptomoneta Petro, controllo dei prezzi di beni necessari alle famiglie, aumento del salario minimo, flessibilizzazione del cambio e aumento del prezzo della benzina – è stato rifiutato dall’opposizione interna che ha indetto uno sciopero generale ed è apertamente osteggiato dai vicini.

Il Brasile del presidente golpista Temer ha inviato truppe alla frontiera con il Venezuela e la Colombia del neoeletto presidente di destra Iván Duque che ha rafforzato le relazioni con gli Usa e attende l’arrivo di una nave nordamericana (la Usns Confort, capace di trasportare elicotteri da guerra) per «prestare aiuti umanitari ai venezuelani che vivono in Colombia».

Il quadro è quello più volte tracciato dal presidente venezuelano, una vera e propria «guerra economica» i cui effetti sono drammatici: iperinflazione – a luglio calcolata al 2,7% al giorno, con apocalittiche previsioni del Fmi –, generalizzata penuria di generi alimentari, medicinali e beni di prima necessità, crescente malcontento se non disperazione di gran parte della popolazione che non ha uno sbocco politico anche a causa di un’opposizione divisa e sempre più dipendente da un intervento esterno.

Il fallito attentato contro Maduro del 4 agosto ha ulteriormente drammatizzato la situazione, che alcuni analisti hanno paragonato a quella del Cile di Salvador Allende prima del golpe del generale Pinochet.

Del resto la recente visita in Argentina, Brasile e (venerdì scorso) Colombia del segretario alla Difesa Usa, James Mattis, ha accresciuto tali timori. Il capo del Pentagono ha affermato senza mezzi termini che la «tragica situazione» in Venezuela è «colpa di un governo assetato di potere». Mattis e il ministro degli Esteri di Bogotà, Carlos Holmes Trujillo, hanno confermato che l’obiettivo è di «rafforzare una grande coalizione democratica internazionale» che permetta al popolo venezuelano di «scegliere il governo che vuole avere».

Se il quadro regionale è chiaro, altrettanto drammatica è la situazione interna al Venezuela. Il «nuovo ordine economico» voluto dal vertice bolivariano ha lo scopo di «mettere fine alla dollarizzazione» del Venezuela e di ancorarne l’economia al Petro, a sua volta sostenuto dal greggio della Faja dell’Orinoco.

La criptomoneta infatti definisce sia il valore del Bolivar sovrano entrato in funzione lunedì (un Petro vale 3.600 nuovi Bolivar) sia del lavoro (il salario minimo è stato fissato a mezzo Petro) sia dei prezzi di una serie di generi alimentari e prodotti di base (che il governo ha iniziato a stabilire ieri). «Lo scopo delle nuove misure è di trovare un punto di equilibrio tra salario e lavoro, tra gli introiti di una famiglia e i prezzi: punto che oggi non esiste a causa della dollarizzazione», ha affermato Maduro.

Di fatto l’economia venezuelana dipende dall’estero, dal valore assegnato al dollaro nel mercato nero e deciso da Dolar Today le cui fila sono tenute negli Usa. Il Petro dunque – garantito non solo dal greggio ma anche da una serie di materie prime nazionali, dall’oro ai minerali non ferrosi – dovrebbe consentire un controllo nazionale dell’economia, necessario per rilanciare la produzione e migliorare la vita dei venezuelani.

Le obiezioni non sono mancate sia dal fronte dell’opposizione di destra sia da parte della Plataforma Ciudadana en defensa de la Constitución Bolivariana, il cosidetto «chavismo critico»: il Petro, affermano, si basa su un bene che sta sotto il suolo e che per essere estratto necessita di risorse finanziarie al momento «non disponibili». Peggio: secondo gli analisti di destra, il greggio che sostiene il Petro sarebbe già «impegnato» per garantire i prestiti ricevuti da Russia e Cina. E mentre il capo del Cremlino si mostra disposto a sostenere Maduro, Pechino avrebbe un atteggiamento «ben più pragmatico».

Più che da uno sciopero che fino a ieri mattina non sembrava riuscito e comunque non in grado di mettere in difficoltà l’inizio della riconversione monetaria, il più forte attacco alle misure di Maduro è venuto dalla Fedécamaras, la Confindustria locale . Pur non partecipando allo sciopero, gli industriali hanno minacciato che l’imposizione del nuovo salario minimo ancorato al Petro, come pure la fissazione di nuovi prezzi e regole per il cambio, può «portare al fallimento» delle imprese. D

ura la reazione di Maduro e del vicepresidente incaricato dell’economia, Tarek El Aissami: «Sono loro che hanno voluto la dollarizzazione. Ora devono accettare le nuove misure, visto che il governo ha annunciato che si farà carico di pagare la differenza (tra vecchio e nuovo salario minimo) per i primi 90 giorni».

Le condizioni interne ed esterne per una «tempesta perfetta» vi sono tutte. Per questo, nelle scorse settimane e con un’accelerazione negli ultimi giorni, il presidente venezuelano si è riunito più volte con l’Alto comando delle Forze armate nazionali bolivariane con lo scopo di «rendere più forte «l’unione civico-militare» che sostiene il governo. In sostanza vengono rafforzati «gli obiettivi e le responsabilità» dei militari nel sostenere le riforme e nel «difendere la pace». Una scelta che guarda sempre più verso Cuba.