Certo gli americani non si sono annoiati nelle due ultime settimane prima del voto per il Congresso del 6 novembre. La fase finale della campagna elettorale è iniziata con l’uragano Michael che ha devastato larghe parti della Florida, con polemiche su soccorsi e responsabilità.

È proseguita con raffiche di tweet di Trump sulla carovana di migranti che attarversa il Messico diretta verso gli Stati Uniti. Mercoledì 24 ottobre un bianco ha cercato di entrare armato in una chiesa e ha poi ucciso due anziani afroamericani vicino a Louisville, nel Kentucky. Venerdì 26 è stato arrestato in Florida Cesar Sayoc, un fanatico sostenitore di Trump, come presunto autore dei pacchi bomba inviati a Barack Obama, Hillary Clinton e una decina di altri democratici, oltre che all’attore Robert De Niro, al miliardario ebreo George Soros e alla Cnn.

Sabato 27 Robert Bowers è entrato in una sinagoga di Pittsburgh e ha ucciso 11 persone nel peggiore massacro antisemita della storia americana. Lunedì 29 la Casa Bianca ha annunciato l’invio di 5.200 soldati al confine con il Messico per prevenire «l’invasione» dei migranti, che erano in quel momento a 3.300 chilometri di distanza.

Le elezioni per il Congresso che si svolgono a metà mandato di un presidente sono governate da tre regole quasi mai violate nell’ultimo secolo: prima cosa, il partito del presidente otterrà risultati mediocri, talvolta disastrosi. Secondo, se gli Stati Uniti sono impegnati in una guerra all’estero che si prolunga, i cittadini disapprovano votando contro chi sta alla Casa Bianca. Terzo, se l’economia va male votano per l’opposizione, se va bene votano per il governo.

Quest’anno la guerra in Afghanistan è praticamente dimenticata e l’economia va bene. In più c’è Donald Trump a galvanizzare gli elettori repubblicani: aspettatevi una lunga notte di conteggi, martedì prossimo, e una lunga settimana di verifiche delle schede in qualche decina di seggi della Camera dove il risultato dipenderà dall’ultimo voto.

Alle elezioni di metà mandato gli americani partecipano poco: di solito, meno del 40% degli aventi diritto va a votare e nel 2014 si stabilì il terzo peggior risultato degli ultimi 100 anni in termini di affluenza alle urne. Sono elezioni dove il portafoglio conta molto: il deputato locale ha portato benefici alla città? Il senatore dello Stato ha ottenuto fondi federali? Se sì, la loro rielezione è quasi garantita. Se, invece, gli elettori hanno l’impressione che deputato e senatore siano rimasti a Washington a curare la loro carriera e abbiano dimenticato il loro collegio, allora lo sfidante del partito opposto ha buone possibilità.

Quest’anno i candidati repubblicani si presentano ai cittadini vantando il taglio delle tasse (che ha favorito prevalentemente gli alti redditi, ma qualche briciola è arrivata anche alla classe media) e, soprattutto, una disoccupazione al 3,8%, la più bassa dagli anni Sessanta. Basterà per convincere i votanti a confermare la loro maggioranza sia alla Camera che al Senato? Trump pensa certamente di sì ma in realtà qualche dubbio deve averlo anche lui se ha scelto l’immigrazione come tema dominante della sua propaganda in questi ultimi giorni.

I mercati azionari sono nervosi: fra il 29 settembre e il 29 ottobre l’indice Dow Jones ha perso circa il 10%, il Nasdaq, dove sono quotate le aziende high-tech, più del 12%. I grandi investitori si preoccupano della guerra dei dazi con la Cina, che potrebbe danneggiare non solo il commercio globale ma toccare direttamente giganti come Apple, che fa produrre ogni singolo telefonino e ogni singolo iPad nelle fabbriche della Foxconn laggiù. In ottobre le sue azioni hanno perso solo il 10% ma i fondi pensione, abituati a performance spettacolari negli ultimi anni, non amano i risultati negativi.

Peggio ancora è andata Amazon, il gigante del commercio elettronico, che in settembre aveva toccato i 2.039 dollari ad azione e ora viaggia attorno ai 1.500, con una perdita netta di un quarto del suo valore di borsa (Jeff Bezos rimane l’uomo più ricco del mondo, non preoccupatevi).

L’incertezza potrebbe pesare sul voto, anche se il pubblico tende ad accorgersi dei risultati economici – positivi o negativi – con almeno sei mesi di ritardo. Fino a che il lavoro c’è, quindi, l’uomo della strada potrebbe considerarsi soddisfatto e votare per i repubblicani. Dall’altra parte c’è però una mobilitazione dei democratici raramente vista negli ultimi anni, in particolare da parte delle donne, che a grande maggioranza detestano Trump e sono decise a farsi sentire.

L’azione del Congresso per smantellare la riforma sanitaria di Barack Obama tocca direttamente i bilanci familiari perché le assicurazioni contro la malattia rimangono private, benché in qualche modo calmierate dal governo federale. Per le donne il lavoro c’è, anche troppo: spesso ne devono fare due, se sono single, per arrivare a fine mese, mentre la casa, i bambini e l’assistenza agli anziani pesano sulle loro spalle in un paese con servizi sociali modesti e costosi come gli Stati Uniti. Martedì 6 novembre si vota.