Uscito dalla stanza delle consultazioni di Mario Draghi in versione europeista e moderata, su un punto Matteo Salvini è rimasto fedele a se stesso. La sua proposta di flat tax sarà pure stata respinta, ha detto, ma prima o poi tornerà utile perché è intelligentemente basata «su due aliquote».

POCO PRIMA Giorgia Meloni non era stata meno fantasiosa, spiegando che la «sua» flat tax è un’imposta «progressiva». Tra la tassa piatta a due altezze e la progressività in una sola aliquota ci sarebbe da divertirsi, e invece bisogna seriamente chiedersi perché nel dibattito pubblico sulle tasse circolano tali bestialità. Anzi, perché sono proprio queste le proposte più riconoscibili. La spinta a intervenire sul sistema fiscale da tempo, infatti, parte da destra.
Non solo in Italia. Quando qui avevamo i «tax days» altrove e con più incidenza avevano i «Tea party». Ma da noi, più che in altri contesti, questa spinta a correggere il sistema per andare incontro ai più ricchi è un eccellente esempio della capacità della destra – politica o tecnica che sia – di dettare l’agenda. A maggior ragione quando è del tutto scollegata dalla realtà.

QUALE SIA LA REALTÀ DEI FATTI lo spiega un saggio da oggi in libreria, l’autore è una firma che i lettori del manifesto ben conoscono, Francesco Pallante (Elogio delle tasse, edizioni Gruppo Abele, pp. 158, 14 euro). Nell’anno in cui cade il cinquantenario della riforma tributaria – la cosiddetta «legge Preti» del 1971 – gli scaglioni dell’imposta sul reddito delle persone fisiche (Irpef) si sono ridotti da trentadue a cinque. Se allora «l’ideale di riferimento era quello dell’uguaglianza in senso sostanziale» (autore della riforma, con il socialdemocratico Preti, il repubblicano Visentini), «distinguendo – scrive Pallante – le singole posizioni concrete sin quasi nelle sfumature», oggi «è come se le aliquote Irpef fossero ormai ridotte a due». Formalmente sono cinque – «riforma» Visco del ’97 poi confermata dai governi di centrodestra – comunque clamorosamente meno del progetto iniziale. Tanto che oggi non c’è «niente di più lontano dal progetto dei costituenti» del sistema fiscale italiano. Tra l’aliquota minima e l’aliquota massima del 1973 c’erano 62 punti percentuali di differenza (dal 10% per i redditi fino a due milioni di lire al 72% per quelli sopra 500 milioni). Oggi la differenza è di appena venti punti percentuali (dal 23% al 43%).

IL COSTITUZIONALISTA Pallante in questo smottamento individua anche le responsabilità della Corte costituzionale, il cui «lato oscuro» è stato rifugiarsi nel secondo comma dell’articolo 53 – «il sistema tributario è informato a criteri di progressività» – per non censurare il fatto che i singoli tributi sono ormai da tempo sfuggiti al criterio costituzionale della progressività (siamo quasi alla flat tax modello Meloni).
Il risultato è che oggi quatto euro su dieci arrivano al fisco dalla tassazione indiretta (sui consumi) per definizione impossibile da rendere progressiva. E solo gli altri sei dalle imposte dirette, nemmeno tutte ispirate a un blando criterio di progressività (non lo sono ad esempio Ires e Irap).
Il lavoro di Pallante è un ottimo antidoto alla tentazione di cercare la via d’uscita dalla crisi pandemica nel mondo di ieri. Quello in cui le disuguaglianze fiscali erano già tali da spingere 83 miliardari assortiti a chiedere pubblicamente ai loro stati di essere, per cortesia, tassati di più. Il saggio anche un altro pregio, per un libro con questo titolo: quello di non ripetere tra le tantissime citazioni – da John Locke a Jeff Bezos – quella abusata di Tommaso Padoa Schioppa, per il quale le tasse erano «bellissime». Il che, in tempi in cui gli economisti di Banca d’Italia vanno decisamente di moda, colpisce.