La parola sperimentale ha perduto il suo antico valore, per essere appro­priata ad una categoria più estesa, in cui il tentativo consiste proprio nella costruzione totale del film in tutte le sue parti, di qualunque genere esso sia1.

Queste parole, vergate con grande consapevolezza da parte di Paolella (Domenico Paolella, Cinema sperimentale ndr),, sgombrano il campo dall’equivoco che ora come allora rischia di confonderci: in questo caso, infatti, non si tratta tanto di qualificare una “linea sperimentale”2 o una “via sperimentale”3, o “corrente” sperimentale all’interno dell’esperienza gufina o in­dipendente o passoridottistica. Non si tratta in sostanza di rico­noscere gli “esperimenti” formali più sofisticati, né le prove più mature e consapevoli da sussumere in una categoria prodotta da una coscienza critica postuma. Si tratta piuttosto di cogliere il sen­so storico di un termine – “sperimentale” – in cui si riconosceva un vero e proprio movimento. Questo non vuole rintracciare una “tradizione sperimentale” in exploits stilistici e formalisti4.

Se questa può essere ricostruita, infatti, deve misurarsi con l’in­tera produzione.

La prima nozione di “sperimentale” cristallizzata e formalizzata nella letteratura italiana sul cinema è la definizione di “sperimen­tale” che ci restituisce assai nitidamente Paolella e riguarda tutto il cinema prodotto nelle strutture dei Guf o in quelle legate a esse – indistintamente5. L’accento è inequivocabilmente posto sulla pratica, sulla “costruzione totale del film”, dunque sull’esercizio di una competenza tecnica. Il cinema sperimentale è dunque un ci­nema di “formazione”, “esercizio”, legato certamente a una libertà di “sperimentazione” anche linguistica e quindi stilistica, ma que­sta non è funzione esclusiva della sua definizione.

La costruzione di una “competenza” è un fattore di legittimazio­ne fondamentale per la pratica del cinema sperimentale negli anni del regime: l’esercizio sperimentale avrebbe avuto, lo vedremo tra poco, una funzione sociale e quindi politica – poiché attivata all’interno della società fascista – di estrema rilevanza e dunque si univa armonicamente alle funzioni culturali e ideologiche messe in campo dalle strutture dei Gruppi Universitari Fascisti. Va da sé, dunque, che questa competenza – che l’esercizio sperimentale del cinema – non potesse essere che “politico”. Su questo punto, tutta­via, è necessario chiarirsi.

1.2 La nozione di “sperimentale” e il film politico

Il film sperimentale prodotto nei Guf deve essere inteso come film politico: nelle dichiarazioni che leggiamo nelle riviste e nel­le documentazioni dell’epoca appare molto chiaro. Riprendiamo dunque brevemente alcuni passaggi già citati alla fine del primo capitolo:

sì film politico, come deve essere fatto ogni film girato in Italia: i gio­vani dei Guf hanno una maturità culturale che li rende dei giganti di fronte all’analfabetismo cinematografico imperante […] per questi gio­vani non è possibile concepire un film altro che fascisticamente.6

Su come dovesse essere fatto un film politico sui notiziari dei Cineguf troviamo poi indicazioni altrettanto chiare: “Al cinema politico sono affidati, per quanto è possibile, l’esplicazione e la comprensione dei problemi all’ordine del giorno della Nazione. Questi problemi oggi si chiamano preparazione militare, autar­chia, razza”7.

Tuttavia anche in questo caso la definizione di film sperimen­tale come film politico non doveva confondersi con quella di film di propaganda. Sempre sui notiziari dei Cineguf leggiamo “i film non dovrebbero avere uno specifico dogma propagandistico, inteso puramente come tale”8, in questo senso, come abbiamo scritto, l’idea di film sperimentale come cinema politico tende­va più allo spirituale, come ci lascia intendere Paolella: “[…]lo sperimentale avvicina a una concezione di cinema, la sola che sia espressione epica dei tempi nostri e che tenda ad una reale fusione arte-politica”9. Ma come doveva essere un film politico, fascista, non di propaganda? E a cosa si faceva riferimento con questa nozione?

Misurare l’evoluzione dei discorsi sull’essenza politica del film sperimentale deve tener conto sul piano estetico della comples­sità della cruciale e centrale dialettica tra avanguardia e realismo – lo vedremo tra poco – e sul piano produttivo dell’importanza strategica che rivestiva politicamente una competenza tecnica maturata su un terreno di sperimentazione ideale come per esem­pio quello del cinema. Altrimenti detto: la competenza diventa il fattore decisivo per una legittimazione che si misura più sul piano della committenza che non su quello di un’adesione ideologica a dettami estetici più o meno chiaramente definiti. In questo sen­so l’investimento della competenza cinesperimentale, per esem­pio nei settori dell’industria, dell’istruzione, dell’urbanistica, ma anche come fonte di documentazione della vita del PNF, più che nella vera propaganda istituzionale – molto più complessa, poi, nei generi finzionali “a soggetto” – sono primari per comprende­re la legittimità e l’importanza politica del film sperimentale; il documentario è il terreno di sperimentazione tecnica privilegia­to per garantire lo spazio necessario a quella ricerca stilistica e produttiva che sarà decisiva nell’approdo al neorealismo10.