Dalla campagna di Burin, Yasmin Najjar, nei suoi 17 anni di vita, non aveva visto colline più alte di quelle che dominano e proteggono Nablus, la città dove scappano i giovani del suo villaggio in cerca di lavoro e di svago. «Le montagne vere le avevo solo viste in tv. Non ho viaggiato molto, qualche gita con la mia famiglia, giretti occasionali a Ramallah e in altre città (dei Territori occupati, ndr), tutto qui», dice Yasmin con un sorriso. Ma la vita, si sa, talvolta ti porta a fare cose che non immaginavi di poter realizzare solo il giorno prima. E la ragazzina di Burin, una adolescente come tante altre, si è ritrovata a compiere un’impresa da “alpinista” finita sulle pagine dei giornali di mezzo mondo: ha scalato i quasi 6000 metri del monte Kilimanjaro, la vetta più alta del continente africano. Altro che le basse, seppur stupende, colline di Nablus e della Cisgiordania!

Un’impresa davvero eccezionale perchè realizzata con un arto amputato, grazie anche a una protesi fornita da una start up ticinese, la Swissleg. Yasmin è disabile dall’età di tre anni. Fu investita da un veicolo dell’esercito israeliano di fronte a casa sua. I medici furono obbligati ad amputarle la gamba sopra il ginocchio. Un dramma che ha fortificato il suo carattere e accresciuto la sua voglia di fare e di conoscere. Ad accompagnare Yasmin nella spedizione verso la vetta dell’Africa, è stato un altro ragazzo palestinese, Mutassem Abu Karsh, di Gaza, anch’egli con un arto amputato, il risultato di un bombardamento israeliano. Entrambi hanno piantato in cima al Kilimamjaro la bandiera palestinese. «Dopo quella scalata tanto faticosa, è stato emozionante sventolare la nostra bandiera così in alto», racconta Yasmin mostrandoci il diploma di “scalatrice” ricevuto dalle autorità africane.

Qualcosa di grande

A far sognare la grande impresa alla ragazzina di Burin all’inizio è stata Suzanne Al Houby, palestinese residente negli Emirati e prima donna araba a scalare l’Everest nel 2011. «Suzanne è eccezionale – dice Yasmin – ha compiuto qualcosa di grande per le donne arabe e per la Palestina. Leggendo della sua scalata sui giornali e in rete, mi sono detta: posso farcela anche io, magari non l’Everest, qualcosa di più affrontabile, comunque una montagna vera, una di quelle che vedevo alla tv ricoperte di neve e ghiaccio». La spinta definitiva è venuta dall’americano Steve Sosebee, il presidente del Palestine Children’s Relief Fund (Pcrf), un’ong di Ramallah che da oltre venti anni garantisce nelle strutture ospedaliere pubbliche dei Territori occupati, cure mediche specialistiche per i bambini palestinesi gravemente ammalati. Con il Pcrf collaborano stabilmente medici di tutto il mondo, tra i quali tanti italiani. Il dottor Stefano Luisi di Pietrasanta lo scorso anno ha avviato il primo programma di cardiochirurgia pediatrica nella Striscia di Gaza. «Steve non è solo un operatore umanitario, è anche uno sportivo, era già stato con sua figlia sul Kilimanjaro – prosegue Yasmim – un giorno mi ha detto: Yasmin che ne dici se questa tua voglia di scalare una montagna la mettiamo in pratica per un’iniziativa umanitaria? Così è nato Climb of Hope (La Scalata della Speranza), per portare l’attenzione sui giovani arabi disabili, sui feriti di guerre e conflitti». A Yasmin è stato affiancato Mutassem, altrettanto desideroso di mettersi alla prova e di dare un contributo alle cure dei bambini palestinesi ammalati.

«Non ho mai visto due adolescenti così coraggiosi: speriamo che la loro scalata possa ispirare altri ragazzi in Medio Oriente a realizzare i loro sogni e a superare le difficoltà politiche ed economiche che stanno vivendo», spiega Sosebee. La vocazione del Pcrf, prosegue, «non è solo quella di garantire cure mediche a bambini e ragazzi ammalati. Vogliamo contribuire a dare una mano in vari modi ai ragazzi arabi. Tanti di loro hanno talento, sono intelligenti, pronti alle novità e ad aprirsi alle nuove tecnologie. Per molti di loro però la vita è segnata da guerre e tragedie immense. Climb of Hope vuole dare una opportunità a tanti di questi ragazzi oltre a concentrare l’attenzione del mondo sulla vita di migliaia di giovani che sono vittime di conflitti». La campagna ha già raccolto oltre 100 mila dollari, soldi che serviranno a pagare terapie mediche specialistiche per i ragazzi del Medio Oriente resi disabili dalla guerra e per avviare iniziative di valorizzazione dei giovani palestinesi e arabi. «Il Pcrf – aggiunge Sosebee – è impegnato in diversi Paesi della regione e negli ultimi anni si è spesso occupato di bambini rimasti feriti non solo a Gaza e in Cisgiordania ma anche in Iraq, Libano e Siria. È un grosso impegno che svolgiamo grazie a donazioni che in gran parte arrivano da semplici cittadini e all’aiuto volontario di medici di ogni parte del mondo. Quelli italiani danno un contributo eccezionale».

Gli allenamenti per Yasmin sono durati un anno. «Devo ammettere che soprattutto all’inizio ho avuto momenti di debolezza – riconosce la ragazza – gli esercizi da fare erano pesanti, non facili da portare a termine con una protesi. Ho dovuto macinare chilometri su chilometri, portando pesi per abituarmi allo zaino che mi avrebbe accompagnato durante la scalata del Kilimanjaro. Tutto ciò mentre le mie compagne di scuola apparivano piuttosto scettiche sulle mie possibilità. Eppure, più loro provavano a scoraggiarmi, con affetto, dall’intraprendere un’impresa che consideravano pericolosa, più io mi caricavo e andavo avanti. In fondo le capivo, mi avevano sempre visto come una disabile. Alla fine ho avuto ragione io, sono riuscita a dimostrare che in realtà non sono disabile e che posso fare tante cose che loro non sono in grado di compiere». Un grosso aiuto a Yasmin è venuto dalla famiglia. «In casa nessuno ha mai avuto alcun dubbio sulle mie possibilità, mi conoscono, sanno che sono caparbia, quando mi metto un cosa in testa poi riesco sempre a farla», esplode in una risata Yasmin sotto gli occhi della madre un po’ imbarazzata.

Dopo un anno di fatica e sudore, e il trasferimento ai piedi del Kilimanjaro, il 17 gennaio arriva il grande giorno. L’inizio della scalata. Assieme a Yasmin e Mutassem ci sono Suzanne al Houby e altri 14 scalatori di professione arabi e occidentali, altri partecipanti ben allenati e, naturalmente, Steve Sosebee, deciso a vivere insieme ai “suoi ragazzi” un’esperienza umana con un forte contenuto politico. «Ho avuto timore ma mai paura, sapevo che l’ostacolo più grosso sarebbe stata la fatica» dice Yasmin, «Mutassem e io ci siamo sempre aiutati con lo sguardo durante la salita, ci siamo incitati a vicenda per superare le difficoltà. Ma non abbiamo mai avuto alcun dubbio, sapevamo che alla fine ci saremo ritrovati in cima al monte».

I figli della vita

Ad accompagnare il gruppo di scalatori l’incoraggiamento del poeta palestinese Ibrahim Nasrallah. «Questi ragazzi senza gambe ci dicono: noi siamo i figli della vita, i figli di un popolo che da un secolo combatte per la libertà e questo popolo non sarà mai sconfitto – ha scritto Nasrallah – ho sentito in me stesso una profonda trasformazione. Ho voluto conoscere meglio quei due ragazzi e, attraverso loro, una generazione che l’esercito israeliano ha cercato di privare dell’infanzia, bambini a cui l’esercito israeliano tenta di chiudere i percorsi di speranza che genitori e nonni hanno cercato di aprire per loro con tanti sacrifici».

Durante la scalata Yasmin ha avuto modo di conoscere le sue possibilità fisiche e caratteriali. «Ci sono stati tanti momenti difficili, quelli in cui pensi a quanto è lontana casa, tua mamma, la Palestina e capisci che tutto quello è importante e ti manca. Però – aggiunge – in quei momenti sai anche che stai vivendo un’esperienza unica, un passaggio verso una nuova vita». Ha solo 17 anni Yasmin e già parla come una adulta, pianifica il suo futuro. «Mi piacerebbe studiare in Europa, magari in Germania, un paese che mi appare organizzato e dove un ragazzo può costruire il suo futuro», ci dice, chiedendoci poi informazioni sulle università italiane. Il richiamo della montagna però è forte, l’esperienza del Kilimanjaro per Yasmin non dovrà rimanere unica. «Voglio scalare l’Everest, sì, hai capito bene, come ha fatto Suzanne al Houby, sono sicura di potercela fare, anche con un arto amputato. È solo una questione di allenamento», proclama sotto lo sguardo preoccupato della madre. Ora però il sogno dell’impresa futura lascia spazio alla gioia per la scalata compiuta. «Quando abbiamo raggiunto la vetta del Kilimanjaro ho provato emozioni indescrivibili, una gioia immensa – ricorda Yasmin, sfogliando sul suo laptop le centinaia di foto scattate in quei giorni – ’Mutassem, Mutassem, siamo arrivati in cima, siamo in cima’, urlavo felice con la voce rotta dalla fatica. Poi mi sono seduta, ho sventolato la bandiera palestinese e pensato ai ragazzi vittime della guerra. Spero di avere contribuito ad aiutarli».