Le violenze in Libia si aggravano in vista delle elezioni parlamentari anticipate che si terranno il prossimo 25 giugno. Con l’operazione Karama (dignità), il golpe che tra il 16 e il 18 maggio scorso ha aggravato il caos che imperversa nel paese, il generale in pensione Khalifa Haftar – che potrebbe formalizzare una sua candidatura alle elezioni, grazie al sostegno dei miliziani di Zintan – ha assaltato il Congresso nazionale generale (Cng) e sferrato un attacco aereo su Bengasi.

Da allora, il paese è attraversato da scontri e regolamenti di conti. I Fratelli musulmani libici hanno però strappato, dopo vari tentativi falliti, la nomina del nuovo premier Ahmed Maiteq, uomo d’affari vicino agli islamisti. Il voto per l’esecutivo in carica era stato impedito da Haftar, anche perché le milizie Scudo di Misurata avevano in larga parte disatteso gli ordini della Fratellanza libica di dispiegamento intorno al parlamento.

Nel braccio di ferro tra islamisti e golpisti si registra una recrudescenza dei jihadisti, che mantengono ambigui legami con la Fratellanza libica. Secondo il sindacato dei giornalisti, venerdì la nota reporter Nasib Kernaf è stata sgozzata a sud. La giovane lavorava per la tv al Watan, dai cui schermi il colonnello Mokhtar Farnana aveva annunciato la «sospensione» del parlamento. Nadib era stata rapita giovedì sera a Sebah, località a 650 km a sud di Tripoli. Il sindacato ha accusato «gruppi terroristici» dell’uccisione.

Lo scorso 26 maggio la stessa sorte era toccata a Meftah Bouzid, giornalista che più volte aveva criticato le milizie islamiste attive in Libia. Bouzid, caporedattore del quotidiano Burniq, è stato freddato nel centro di Bengasi. Secondo i golpisti di Haftar, in particolare l’Università di Bengasi è un covo per le milizie jihadiste che avrebbero utilizzato l’ateneo come deposito di armi e munizioni. Non solo: le forze fedeli al generale in congedo, ex agente della Cia che ha vissuto 20 anni negli Usa, hanno bombardato campi di addestramento jihadisti a Bengasi e nel distretto di Quarsha, a est.

Lo scorso mercoledì, un gruppo di uomini armati aveva attaccato un’unità del ministero dell’Interno libico responsabile della protezione del governo e l’abitazione del premier Ahmed Maiteq sarebbe stata presa d’assalto varie volte dai miliziani. Nelle scorse settimane, le forze di Haftar hanno lanciato un’operazione contro le milizie islamiche attive a Bengasi, assicurando di voler «ripulire il paese dai terroristi».

Per giustificare la repressione dei movimenti islamisti moderati e radicali, la retorica della lotta al terrorismo è usata da Haftar, come prima dall’ex generale egiziano Sisi, che in campagna elettorale ha salutato con favore l’operazione Karama in Libia auspicando la fine del traffico di armi con l’Egitto.

Dal canto loro, gli Stati Uniti hanno invitato i cittadini americani a lasciare il paese. Mohamed Zahawi, leader della milizia islamica Ansar al Sharia, ha accusato gli Stati Uniti di sostenere Haftar e voler trascinare la Libia «verso la guerra civile». Nel messaggio trasmesso da alcune tv libiche, Zahawi ha invitato gli Usa a non interferire negli affari interni libici per evitare un «pantano peggiore di Iraq e Afghanistan».

Nelle stesse ore, Washington ha inviato al largo delle coste libiche la Uss Bataan, nave d’assalto anfibio, con a bordo mille marines, pronti ad intervenire nel caso si rendesse necessaria l’evacuazione del personale dell’ambasciata Usa a Tripoli. L’invio della nave al largo delle coste libiche rafforza il dispositivo che il Pentagono aveva già attivato nella base di Sigonella, in Sicilia, dove ora ci sono 250 marines, dieci aerei, sette V-2 Osprey e tre C-130, da usare in caso di evacuazione.

L’11 settembre 2012 l’ambasciatore Usa in Libia, Chris Stevens e 3 cittadini americani furono uccisi. Il ritardo nell’intervento dei marines aveva provocato polemiche, coinvolgendo anche l’allora Segretario di Stato, Hillary Clinton.