Nella storia delle chiese i concili sono momenti fondamentali di ripensamento e di indirizzo. Vi sono prese decisioni che poi richiedono decenni, talvolta secoli, per arrivare a maturazione. Solamente in quest’ottica di lungo periodo, quella in cui agisce la sinodalità dei cristiani, si può comprendere davvero perché l’annunciato incontro del prossimo 12 febbraio a L’Avana tra papa Francesco e il patriarca ortodosso di Mosca, alla guida di circa due terzi degli ortodossi nel mondo, ha un significato storico sia dal punto di vista religioso sia da quello più strettamente politico.

La vicenda dei rapporti tra cattolici e ortodossi ha alle spalle quasi mille anni di conflitti e, dopo lo scisma del 1054, di tentativi di riavvicinamento e di fallimenti.

Tuttavia, sono stati soprattutto gli ultimi cinquanta anni a risultare decisivi. È stato necessario infatti attendere il concilio Vaticano II perché la Chiesa cattolica mettesse finalmente da parte la pretesa di un «ritorno» dei cristiani sotto il suo controllo e sposasse una concezione più moderna della categoria di «ecumenismo».

Effetto immediato

Un effetto immediato di quella svolta pastorale (ratificata nel decreto Unitatis redintegratio) fu la dichiarazione congiunta con la quale nel gennaio 1964 Paolo VI e il patriarca di Costantinopoli Athénagoras esprimevano la decisione di revocare le reciproche scomuniche. Con Giovanni Paolo II quello sforzo è proseguito attraverso canali diplomatici di varia natura (ufficiali e non), ma era soprattutto la contrapposizione tra i blocchi e la diffidenza del patriarcato rendevano difficoltoso il rapporto con la Chiesa di Mosca.

Nonostante la presenza al Vaticano II di due delegati della Chiesa russa in qualità di osservatori e i successivi passi in avanti dell’ostpolitik del card. Casaroli, pesava un quadro internazionale reso ancora più conflittuale dalla linea del «papa polacco» nei confronti dell’allora Unione sovietica. Oggi in uno scenario completamente modificato, ma – come ha spiegato il metropolita Hilarion Alfeyev – non meno grave a causa del «genocidio dei cristiani» in Medio Oriente e in Africa, le due autorità religiose possono finalmente incontrarsi per la prima volta per affrontare le sfide comuni in «una più stretta collaborazione tra le Chiese cristiane».

Si tratta quindi di un incontro che, stando al comunicato congiunto di venerdì, non si propone di parlare dell’unità delle chiese, ma che «segnerà una tappa importante nelle relazioni» tra la Santa Sede e il Patriarcato di Mosca. Entrambi auspicano che sia anche «un segno di speranza per tutti gli uomini di buona volontà». Una dichiarazione, quest’ultima, che il cardinale Kasper ha letto in una prospettiva intra-ecclesiale (il definitivo superamento dell’uniatismo e la rinnovata sintonia con una Chiesa vicina a quella cattolica come struttura e dottrina), ma che ha evidentemente anche un chiaro segnale politico. Kasper ha identificato i due fronti di convergenza nella Siria, dove pesa la presenza degli ortodossi, e in Ucraina, paese ancora solcato da una guerra civile e nel quale sono forte le tensioni tra il Patriarcato e la Chiesa greco-cattolica schierata con Kiev.

La scelta di incontrarsi a Cuba, paese in cui Kyrill ha consacrato la chiesa russa all’Avana antica, è politicamente importante anche per il ruolo di mediazione svolto da Raul Castro, nuovamente protagonista di un gioco di sponda con la Santa Sede. Come è stato sottolineato, il governo cubano ha offerto un territorio «neutro» per un incontro che trova ancora molte resistenze in Russia e che non potrà non avere importanti ripercussioni a lungo termine sulle relazioni tra le chiese, ma anche sugli equilibri diplomatici internazionali.

Il Concilio pan-ortodosso

Allargando la prospettiva al resto del mondo ortodosso, è significativo poi che il riavvicinamento tra la Santa Sede e il Patriarcato avvenga alla vigilia del prossimo concilio pan-ortodosso che si svolgerà a in giugno a Creta, un’assemblea dal valore epocale e per la quale lavora da tempo il patriarca Bartolomeo, che non a caso ha accolto con grande soddisfazione la notizia dell’incontro cubano. Forse, come è avvenuto con l’ultimo concilio ecumenico dei cattolici, Creta rappresenterà un’ulteriore tappa di un disegno ecumenico in cui religione e politica sono sempre state tra loro strettamente legate, talvolta ostacolandone lo sviluppo, e talvolta, come in questo caso, favorendolo.

Da un altro punto di vista, più prettamente geo-politico, l’incontro di Cuba può essere letto tanto come un successo della strategia diplomatica di Francesco (dall’appello super partes per la pace in Siria agli sviluppi più recenti che ne hanno fatto un interlocutore autorevole sul piano mondiale), quanto come una conferma di quella sinergia tra le religioni monoteistiche in cui alcuni interpreti, come Manlio Graziano, vedono una manifestazione del ritorno delle religioni nella sfera pubblica.