Non è chiaro quale sia l’avvenimento che ha sconvolto il piccolo paese sperduto sull’Appennino settentrionale in cui Sandro Campani ha ambientato il suo ultimo romanzo, I passi nel bosco (Einaudi, pp. 248, euro 19,50), ma ora il genere al quale si devono conformare le sei voci narranti assomiglia molto alla deposizione. Perché stanno indubbiamente facendo qualcosa, fosse anche solo fornire la loro testimonianza in merito alla vita che hanno condiviso, dal momento che si tratta chiaramente di aver vissuto comunque insieme.

NON È UN CASO che al centro delle loro ricostruzioni appaia e scompaia di continuo una specie di fantasma, Luchino, che non essendosi mai legato a nessuno esercita sulla piccola comunità il magnetismo della grazia. Qualcuno lo adora, qualcuno ha motivo di detestarlo, ma è solo in rapporto a Luchino che adesso è possibile comprendere il passato che continua a tramare nel presente. Ora che tutti si ritrovano una domenica mattina per sistemare il bosco adiacente al progetto di un albergo diffuso che probabilmente non inaugurerà mai, perché sono queste le uniche forme in cui l’algoritmo consente alle cosiddette aree interne di esprimere il loro abbandono.

BASTA APRIRE il sito internet di una qualunque agenzia di promozione del territorio: esperienze uniche, borghi spettacolari, e-bike, speed hiking, trakking, fly line, b&b, eventi, tarzaning e alberghi diffusi, si diceva. Un inventario dell’offerta turistica che in determinate zone d’Italia ricorda la «mentalità miracolosa» con la quale gli indigeni della Melanesia presumevano di catturare gli aerei in volo riproducendone la sagoma sul terreno. Dal momento che il simile veniva attratto dal simile, spiega infatti Baudrillard, gli indigeni davano per scontato che un giorno o l’altro gli aeroplani si sarebbero posati sulla loro immagine, proprio come la montagna trasfigurata nel paesaggio delle piattaforme ambirebbe a favorire il munifico atterraggio della globalizzazione.

MA È PROPRIO la relativa svendita di ogni mediazione storica e vernacolare a definire il profilo cosmopolita di Luchino, che degli anni Ottanta e Novanta nei quali è cresciuto si direbbe quasi un emblema, l’adesivo del vagabondo con la chitarra a tracolla che appariva dovunque, sul retro delle macchine e i bandoni delle PX, un momento prima che finisse la storia. Tanto che l’attrazione che Luchino continua a esercitare sugli altri e la mancanza di gravità che ne contraddistingue le fughe tendono a precipitare nella nostalgia per un futuro sfiorito, quando lo sradicamento e la morte delle ideologie sembravano preludere all’emancipazione dei postmoderni.
Ma come le Alpi di Georg Simmel, la montagna di Campani rimane un luogo di forti contrasti e della loro possibile redenzione, dove le vertigini causate da Luchino e dal tarzaning non hanno ancora annientato l’intensità dei legami. E questo perché quella del bosco da sistemare, forse, degli alberi da fare legna e del dopolavoro nei piccoli bar di frazione non è mai stata una «natura a buon mercato», né degli esseri umani né del territorio attraverso il quale continuano a entrare in relazione.
È dai boschi di Notre-Dame-des-Landes che proviene il grido «Noi siamo la natura che si difende», uno slogan apparentemente periferico che nei giorni del lockdown avrebbe potuto riassumere le ragioni ben più metropolitane delle lavoratrici e dei lavoratori in sciopero contro il ricatto occupazionale di Confindustria.
È anche sul Monginevro che i migranti eludono la geografia politica e militare di Dublino ed è verso la Val di Susa che torniamo a puntare lo sguardo ogni volta in cui occorre ripetersi che no, non è ancora detta l’ultima parola. Sarebbe ridicolo dedurne un teorema generale della rivolta, lo è forse di meno supporre che nel rapporto triangolare con il protagonismo storico dell’ambiente sia sempre in gioco una qualità insopprimibile delle società umane.

PERCHÉ I TESTIMONI di Campani raccontano che si possono ancora riconoscere gli alberi dal rumore che fanno le foglie calpestate e gli amori dal profumo di una siepe, mentre un certo giorno tornerà a farsi vivo «l’odore vago che resta, all’aperto, dove ci si ferma a pisciare, in quei mattini bluastri in cui si è contenti di avere le maniche corte, che il freddo ci prenda alle braccia, ci faccia sembrare bambini». La retromania o l’estetizzazione del paesaggio non c’entrano più nulla: sono la montagna e gli agenti atmosferici che continuano a intrecciare la loro vicenda con quella non solo biografica dei nostri corpi, l’utopia concreta dei differenti passi sulla medesima ramaglia.