Il primo approccio dice tutto. Siamo lì, nel tendone in Piazza della Libertà, a Bergamo. Siamo lì per seguire l’incontro tra Anna Karina e Olivier Seguret, parte integrante dell’omaggio ad Anna Karina, promosso dal Bergamo Film Meeting. Tutti gli occhi sono rivolti a lei, Anna: la sua perenne aria sbarazzina, gli occhi vispi, compresa una certa timidezza. Mentre parla, Karina ringrazia più volte il marito, Dennis Berry; lo cerca anche con lo sguardo, controlla dove sia. Aggiunge anche che Dennis è un regista, e che ha girato film insieme a lui. E Dennis è proprio lì davanti a noi, in prima fila, una testa riccioluta su una sagoma fasciata perennemente da un piumino grigio. C’è un momento comico: Dennis si alza, stufo di stare seduto. Karina si rivolge ancora a lui ma lui non c’è, e lei lo cerca con lo sguardo. Ci diciamo che deve aver già sentito queste risposte più di una volta. Più tardi siamo all’Hotel. Bisogna intervistare Karina. Ritroviamo anche Dennis, seduto a lato. Un viso simpatico. Ha la battuta pronta. Parla inglese, un inglese californiano. Scambiamo qualche parola. Dice che Anna è stanca per il viaggio in treno. Perché non avete preso l’aereo? Lui ci fissa con uno sguardo sbilenco, di chi la sa lunga, e ci dice che ha problemi col passaporto. La cosa – pensiamo – si fa interessante. Durante l’intervista, è lui ad imbeccare lei, le ricorda qualche aneddoto: somiglia a una specie di pigmalione, ma uscito da un film dei fratelli Marx. Ridacchia, fa battute e alla fine ci accorgiamo che, più che seguire l’intervista, seguiamo lui. Ha qualcosa di magnetico. Più tardi, mentre passeggiamo, mettiamo insieme i pezzi, attratti da quella sagoma, tanto bislacca quanto irresistibile. Americano, regista, con problemi di passaporto: digitiamo il suo nome su google e – bum! – si apre un mondo intero. Dennis Berry è il figlio di John Berry, grande regista hollywoodiano, aiuto di Orson Welles al Mercury Theater, ricercato da McCarthy perché tra i «rossi» di Hollywood. Più tardi, mentre lui accompagna Karina in sala per presentare al pubblico Band à part, la decisione è presa. Dobbiamo intervistarlo. Questo è ciò che abbiamo raccolto, la mattina dopo, a cominciare proprio dal ricordo del padre John. «Mio padre iniziò la sua carriera nel Mercury Theatre di Orson Welles come attore e assistente di Orson e quando Welles se ne andò a Hollywood, mio padre John prese per un po’ le redini del teatro e fece molti spettacoli di successo, mettendo in scena anche un bellissimo e controverso testo di Richard Wright. Poi andò a Hollywood».
Quando avvenne, da parte di tuo padre, l’adesione al partito comunista che, come sappiamo, gli costò una promettente carriera a Hollywood, costringendolo a emigrare a Parigi?
Prima di lasciare il Mercury, molti anni prima. Negli Stati Uniti, parliamo degli anni ’30, se eri di New York e desideravi conoscere e «vivere» di cultura, dovevi in qualche modo aderire al movimento, anche solo simpatizzare, perché la lotta e le manifestazioni erano gli unici mezzi, anche nel mondo dello spettacolo, per respirare e «produrre». Dopo qualche stagione al Mercury, mio padre fu chiamato a Hollywood, girò cinque o sei film come attore e poi passò alla regia cinematografica, realizzando film come Bionda tra le sbarre con Betty Hutton e Casbah con Yvonne de Carlo. Poi, nel 1950, Edward Dmytryk – questo prima che collaborasse dopo mesi passati in prigione – propose a mio padre di girare un piccolo film per supportare i famosi «Hollywood Ten» e mio padre accettò. In quel documentario si percepisce l’atmosfera cupa e claustrofobica di quel periodo, sembra quasi un film noir ma purtroppo le cose peggiorarono nei mesi successivi. John Garfield ad esempio, protagonista del film di mio padre Ho amato un fuorilegge, fu chiamato a testimoniare e morì d’infarto poco prima di presentarsi alla commissione, immaginate lo stress, la paura di perdere il suo status di attore… Poi toccò a mio padre e così un giorno due agenti dell’FBI si presentarono a casa nostra per prelevarlo. Mio padre scappò dalla finestra, prese la macchina e guidò per nove giorni fino al Canada per poi volare verso la Francia. Il giorno dopo, su tutti i quotidiani, la sua fotografia in prima pagina era affiancata dalla scritta «Minaccia, regista comunista sta fuggendo dalla nazione, se lo vedete chiamate questo numero» e così finì nella lista dei criminali più pericolosi d’America. Era il 1951, mia madre, con discrezione, si liberò della casa e partimmo poco dopo anche noi alla volta di Parigi.
Parigi, all’epoca, era un approdo «sicuro» e frequente per moltissimi «blacklisted». Che clima si respirava? Tuo padre come e quando riprese a lavorare?
Si formò una meravigliosa comunità: Jules Dassin, Alex North, lo sceneggiatore Ben Barzman, addirittura alcuni, per crearsi uno status o trovare lavoro, dicevano di essere nella lista ma non lo erano veramente. Era figo in Francia essere un americano di sinistra. Vivemmo in una sorta di comunità per due, tre anni, condividendo i pochi soldi che avevamo e ci riunivamo in piccoli gruppi per fare dei piccoli convegni, anche divertenti a volte, come quello per stabilire se era «comunista» o meno avere la donna di servizio. Poi Jules Dassin riuscì a ottenere il primo contratto in Francia e lasciò la comunità perché non voleva condividere i soldi. Questa comunità, alla fine, si ruppe perché il capitalismo era ed è, purtroppo, più forte di tutto il resto.
È un po’ la storia che racconta Lubitsch in «Ninotchka»…
Esatto. Invece, per quanto riguarda mio padre, fece qualche film in Francia con Eddy Constantine, un po’ di teatro a Londra e tornò a girare negli States solo parecchi decenni dopo.
Che ricordi hai di tuo padre sul set?
Vedevo poco mio padre a casa quindi andavo spesso a trovarlo sul set. Il mio primo ricordo – quella che posso considerare la mia «scena primaria» – avrò avuto cinque anni credo, risale ai tempi di Tension. Mio padre parlava con Cyd Charisse, spiegandole, in un letto gigantesco, come baciare Tony Martin. Mia madre mi teneva per mano e quindi lo ricordo come un mix esplosivo di eccitazione, colpa, complesso di Edipo, ecc ecc. A parte questo, mio padre, oltre all’essere stato un grande regista, era un attore magnifico.
Come avvengono invece i tuoi primi passi nel mondo del cinema? Dalle scarne informazioni trovate su internet, esordisci come attore, nel 1967, ne «La collezionista» di Eric Rohmer…
In realtà il mio primo lavoro nel cinema è stato come assistente personale di Vincente Minnelli, a 19 anni, per il suo film Castelli di sabbia con Richard Burton e Liz Taylor nel 1965. Non amavo quel lavoro, c’era poco da fare anche perché Minnelli aveva una padronanza assoluta del set e così, alla fine, il mio compito era soltanto quello di evitare di non far ubriacare troppo i due.
Passiamo a «La collezionista»…
Haydée Politoff, la protagonista del film, mi adorava e disse a Rohmer «Se devo collezionare ragazzi, voglio decidere io chi». Non desideravo recitare, non amo essere diretto da altre persone, ma conoscevo Rohmer da un po’ e sapevo che sarebbe stato un lavoro breve. Fu un’esperienza magnifica perché c’erano solo nove persone sul set ed era un mondo completamente diverso da quello che avevo imparato a conoscere grazie a mio padre. Sul quel set capii che si poteva girare un film in maniera completamente diversa e capii anche che una cultura alternativa stava crescendo contro il sistema. Rohmer diceva sempre «È l’economia a creare l’estetica» e credo non esista affermazione più veritiera. Cominciò così il mio tortuoso percorso cinematografico, a cavallo fra Francia e Stati Uniti alla fine degli anni ’60.
Dopo «La collezionista», reciti anche in «L’amour fou» di Rivette, «Pauline s’en va» di André Téchiné e «Paris n’existe pas» di Robert Benayoun. Come e quando avvenne il passaggio da attore a regista?
Feci un film come attore, Borsalino, e mi pagarono molto bene. Era verso la fine degli anni ’60 e un amico, che conosceva le mie velleità registiche, mi disse «Fai come Philippe Garrel, fregatene del budget». Avevo scritto un soggetto dal titolo Jojo Doesn’t Want to Show His Feet, la storia di una specie di mostro di 22 anni e della sua ragazza. Una storia davvero bizzara, questo ragazzo non si toglieva mai le scarpe, nemmeno sotto la doccia. All’inizio volevo rubare i soldi per girare perché all’epoca ero convinto che il furto fosse l’unico atto «legittimo» e tutto ciò che era legale era bandito. Alla fine non rubai nulla e lo girai con pochi soldi, insieme alla mia amica Zouzou, ma fui molto soddisfatto. Jacques Rivette amava molto questo piccolo film, lo considerava il primo horror senza trama. Poi girai anche un altro corto The Death of a Cat che vinse il primo premio al festival di Oberhausen. Ottenni così un po’ di celebrità come regista underground e iniziai a pensare al mio primo lungo, che volevo girare insieme alla donna che, nel frattempo, avevo sposato: Jean Seberg.
Come avvenne l’incontro con Jean? Era in qualche modo legato ai comuni interessi civili e politici?
No, scoprimmo successivamente di condividere la stessa passione per l’attivismo e i diritti civili. La prima volta che la vidi avevo 25 anni ed ero in un night club. La vidi danzare ma non avevo capito che fosse lei, era molto buio. Ballava con una sorta di strano personaggio, forse un nano. Rimasi folgorato e chiesi a un amico di organizzare un party per incontrarla. Arrivò con Fabio Testi poi, approfittando di un momento di solitudine, si avvicinò a me dicendomi «Puoi fare qualcosa per me?» Risposi «Farò tutto quello che mi chiederai» e lei sussurrò «Baciami». Uscimmo insieme tre volte e poi ci sposammo. Dopo il matrimonio con Jean, volevo girare con lei il mio primo lungometraggio, una storia molto cupa, una sorta di sci-fi d’autore anche perché lei era stufa di recitare in film prettamente commerciali ma, per qualche guaio di produzione, il film, Prossima apertura casa di piacere, si trasformò in una commedia. Alla fine lo girai più per lei che per me, non lo amo molto, e continuai a fare la spola con Los Angeles in cerca di soldi per girare altri film.
Negli Stati Uniti hai avuto modo di entrare in contatto con il cinema underground dell’epoca?
Conoscevo Andy Warhol e Paul Morrissey. Un giorno Warhol mi mostrò un film Jesus Christ on 42nd street, la storia di un piccolo freak che vendeva speed e si comportava come Gesù Cristo. Era un lavoro magnifico, molto più interessante, a mio avviso, di altri suoi film. Il film andò deliberatamente perduto perché, secondo me, Warhol non voleva mostrare altri lati del suo genio; quel film cozzava contro l’immagine che si era costruito e l’aveva reso famoso, quell’aura di provocazione e rottura che lo circondava.
A proposito di «factory», a Parigi hai mai avuto contatti con lo Zanzibar Group?
Conoscevo bene Olivier Mosset e ovviamente anche Philippe Garrel. A un certo punto avrei dovuto girare un western psichedelico con Tomas Milian e Pierre Clementi ma purtroppo arrestarono Pierre in Italia e restò in galera per tre anni. Quando uscì era totalmente distrutto. Fu una vera tragedia perché l’unica «colpa» di Pierre fu andare a una festa e fumare marijuana. Ricordo che tutti, all’epoca, anche Federico Fellini, cercarono di farlo uscire ma senza successo e poco tempo dopo una tragedia simile accadde anche a Philippe Garrel. Quando uscì di prigione mi disse «Non scorderò mai l’orrore che mi hanno fatto». Da allora, ho l’impressione che Philippe giri film sempre bellissimi ma più dolci e meno folli di quelli realizzati come Zanzibar. Per me resta uno dei pochissimi esempi di purezza, lotta e non compromesso, non come me, piccolo ladro del sistema.
Perché ti definisci in questo modo?
Dopo numerosi progetti falliti, negli anni ’70, e la separazione da Jean, volai a Los Angeles. Là incontrai Anna Karina e ci innamorammo. Ho girato con lei un film, Last Song, la storia di un rockstar che indaga sulla morte del fratello. Dopo una serie di passaggi a festival importanti, compreso quello di Montreal e Taormina, il film avrebbe dovuto avere una regolare distribuzione ma il distributore fallì quattro settimane prima dell’uscita. Avremmo dovuto proiettarlo anche qui a Bergamo, ma l’unica copia ora disponibile, è doppiata in francese, senza il mio consenso. E non mi piace affatto. Sto lavorando ad una nuova copia che uscirà in dvd. Poi, un po’ per caso e un po’ per problemi finanziari, accettai qualche tempo dopo la proposta di un amico di sostituire un regista in una serie tv. Non sapete i tormenti prima di dire sì! Avrei messo a repentaglio la mia purezza? Ho bluffato e ho accettato: «ma solo per una settimana!» gli ho detto. Poi sono andato sul set: ed era tutto bellissimo. Da allora non mi sono più fermato. Dopo anni di budget microscopici, pre-produzioni fallimentari, ecc ecc finalmente avevo a disposizione macchine da prese, comparse, molti soldi, una sorta di mia piccola Hollywood, un ritorno sulle tracce di mio padre.
Va bene, forse ho accettato un compromesso che mai avrei immaginato prima. Però non ho intenzione di «cedere» sulla questione del passaporto. Dopo i guai dovuti all’allontanamento di mio padre, non ho mai più risolto la questione, nonostante ancora oggi ci siano dei problemi quando viaggio. Credo che potrei risolvere tranquillamente la cosa ma, per lealtà verso mio padre, non lo farò mai.