Le perdite dello Stato italiano sui derivati richiamano la sensazione di fregatura che si prova al momento di essere risarciti da un’assicurazione per un incidente stradale o domestico. Al momento della stipula al cliente appaiono solo i vantaggi, mentre quando si tratta di essere saldati per un inconveniente imprevisto per cui si è assicurati si scopre che i dettagli fanno la differenza. Il saldo, dunque, è spesso meno favorevole di quello che ci attenderemmo.

Il caso delle perdite dello Stato italiano negli investimenti in derivati durante la crisi del debito sovrano è stato sollevato dall’economista Luigi Zingales agli inizi di marzo sul Sole 24 Ore: egli accusava lo Stato perlomeno di poca trasparenza, mostrando una danza di numeri sulle perdite (differenze di miliardi tra le dichiarazioni della responsabile del debito del Ministero e il relativo sito) e concludendo con il preoccupato dubbio se «con l’uso di derivati il Tesoro sta veramente riducendo il rischio dei contribuenti italiani o sta solo arricchendo le banche d’investimento, tanto generose nell’assumere ex funzionari del Tesoro?». (leggi qui la risposta, sempre sul Sole 24 Ore, del direttore del Tesoro Vincenzo La Via)

Non a caso, sempre in quei giorni, alcune procure indagavano su un contratto derivato sottoscritto dallo Stato italiano e la Morgan Stanley nel 1994, in cui esisteva un diritto di recesso unilaterale esercitato dalla banca d’affari americana proprio in coincidenza di un declassamento dei titoli italiani a opera di agenzie di rating di cui Morgan Stanley era azionista.

Il costo di tale dubbia operazione era risultato di 2,5 miliardi tra la fine del 2011 e il 2012. In quel periodo il vicepresidente della Morgan era l’ex ministro del Tesoro di Berlusconi Domenico Siniscalco.

Ora Zingales, che non è certo un economista eretico, non si stupisce che l’Italia ricorra ai derivati per tutelarsi dai rischi del proprio debito sovrano, e neppure che la loro gestione evidenzi delle perdite contabili, poiché i derivati sul debito danno guadagni quando i tassi d’interesse salgono e perdite quando scendono, come è il caso odierno. Ciò che lo stupisce sono i diritti unilaterali per una risoluzione del contratto anticipata, diritti che, l’esperienza insegna, vengono esercitati nei periodi più critici per le banche, cioè quando hanno un’eccessiva esposizione su titoli ritenuti a rischio. Come accadde per l’appunto nel biennio 2011-12.

Inoltre l’agenzia Bloomberg ha evidenziato che i derivati che fanno capo all’Italia servano anche a cautelarsi da rischi come l’oscillazione delle valute o dei tassi d’interesse e che complessivamente ammontano a un valore nominale pari a 159 miliardi e attualmente hanno un valore di mercato negativo per lo Stato pari a 46,2 miliardi.

Perdite per il momento solo teoriche, ma che potrebbero diventare concrete, qualora si chiudessero anticipatamente i contratti, come nel caso di Morgan.

Il problema è che non è dato sapere in quanti di quei contratti è presente il diritto di chiusura anticipata unilaterale. Quel che è certo è che, attraverso tale diritto unilaterale oppure a causa di una ristrutturazione di vecchi contratti, si sono già prodotte perdite reali per le casse dello Stato per 16,95 miliardi.

Tali perdite per l’Italia sono superiori a quelle di tutti gli altri paesi dell’Unione europea messi insieme. Come è potuto accadere?

Sembrerebbe che nel periodo più acuto della crisi dei debiti sovrani l’Italia abbia effettuato una sorta di scambio con le istituzioni bancarie internazionali, per cui al garantire da parte di queste la prosecuzione dell’acquisto di titoli pubblici evitando che le aste andassero a vuoto è stata corrisposta la rinegoziazione di alcuni derivati. Ci si è garantiti dai rischi immediati di fallimento al prezzo di assumersi rischi di perdite future.

Nulla è avvenuto gratuitamente e soprattutto dobbiamo ancora una volta registrare il fatto che siamo nelle mani delle grandi banche.