Il recente assassinio ad Atene di un giovane musicista di sinistra da parte di un militante di Alba d’Oro, ha reso incandescente un clima di tensione che potrebbe sfociare prima o poi in uno scontro violento dagli esiti drammatici. Il carattere paramilitare di Alba d’Oro non lascia molto spazio a una soluzione puramente giuridica (la sua messa a bando che giustamente chiede la sinistra, invocando il suo effetto catartico) e la soluzione politica appare faticosa, difficile: il consenso popolare nei confronti di Alba d’Oro cresce di giorno in giorno e secondo rivelazioni recenti è a un incredibile 13%.
La rapida trasformazione di un minuscolo gruppo di fascisti in una forza consistente e minacciosa sorprende tutti per quanto sia in evidente connessione con una spaventosa crisi economica e con un degrado sociale precedentemente impensabile. Abituati a pensare in termini politici (in termini di conflitti e di mediazioni tra interessi economici, sociali e culturali), stentiamo a vedere cosa spinge una parte del popolo, a partire dai più diseredati, a sostenere una forza criminale che di fatto va contro i suoi bisogni reali. Crediamo che il fascismo sia una malattia politica ma in realtà, indissociabile dal razzismo, è una malattia psichica.

La malattia politica (la corruzione culturale e etica) né è la causa ma non la sostanza. La nostra dispercezione è favorita dal fatto che quando la società si ammala psichicamente la politica, di ritorno, si svuota del suo significato e della sua linfa, tende a cancrenizzarsi.
Guardando bene, si può capire che Alba d’Oro non è Alba d’Oro: non è il ridicolo assemblamento di xenofobi farneticanti che sta crescendo a dismisura ma il lato oscuro, rimosso di noi che ottiene un posto evidente nella vita e un ruolo effettivo nel nostro agire. Se la politica fallisce nel suo compito di proteggere l’interesse di tutti garantendo l’equlibrio e la scorrevolezza delle relazioni di scambio (il che produce regolarmente crisi economiche), il rapporto di reciprocità tra noi e l’altro è danneggiato (perché la precarietà delle sue condizioni rende l’incontro un’esposizione a grande rischio).
La parte autoferenziale di noi entra inevitabilmente in azione, tanto più quanto maggiormente siamo esposti all’imprevedibilità degli eventi e manchiamo di mezzi psicologici e cuturali per gestire la perdita. L’altro diventa un nemico sia perché minaccia la nostra pretesa di bastare a se stessi (essendo l’oggetto perduto di una domanda di desiderio che si cerca di negare) sia perché può essere usato come capro espiatorio: diventare il ricettacolo della parte desiderante di noi avvertita come fonte di rischio e disprezzata, aggredita per questo nelle sembianze del nostro prossimo.
Più l’altro ci è contiguo, richiedente nei nostri confronti, in posizione di svantaggio e dominabile sul piano del potere e di conseguenza anche arrabbiato e insofferente, più adatto è a rappresentare il bersaglio che compatta la nostra psiche nell’inerzia dell’autarchia, dando il significato improprio di solidità alla morte che (se non invertiamo la rotta) alla fine ci colpirà.