Dopo il passaggio parlamentare Conte canta vittoria: «Ampio riscontro della tenuta della maggioranza e grande prova. Sta andando tutto bene». Ottimismo di facciata, come quello ostentato qualche ora prima in aula parlando, per titoli e sommi capi, della Nadef. Le sfumature denunciano la preoccupazione del capo del governo. Sono passati due giorni da quando escludeva «il lockdown generale». Ora, a chi lo interroga sul parere di alcuni virologi secondo cui la possibilità di dover chiudere tutto a Natale è concreta e persino auspicabile, risponde smarcandosi: «Io non faccio previsioni per Natale. Le faccio sulle misure più idonee in questo momento per prevenire il lockdown». Ancora meno rassicurante il vaticinio sui lockdown locali: «Se se ne presentasse la necessità sarebbero i governatori a decidere. Con le Regioni la parola chiave è collaborare». Persino sul Mes il premier vacilla più del solito: «No a posizioni ideologiche. Se saranno necessarie risorse ce le procureremo». Formula pudica per dire che, se servirà il prestito del Mes, il governo finirà per chiederlo.
SOLO SULLA MARCIA della legge di bilancio il presidente del consiglio appare davvero fiducioso. Annuncia il nuovo vertice convocato per ieri sera, con l’obiettivo di chiudere il Documento programmatico di bilancio già entro la settimana. Previa approvazione del consiglio dei ministri venerdì, verrà poi inviato a Bruxelles con un prospetto di massima della legge di bilancio. La vera legge, però, non sarà pronta prima della fine del mese. Il problema è che la crisi sanitaria incide a fondo sui conti della Nadef, che partono dal presupposto di un miglioramento della situazione nei prossimi mesi. Se resterà identica quei conti dovranno cambiare e a ben maggior ragione se peggiorerà in seguito all’aggravarsi dell’epidemia. La quale però si è già aggravata, rendendo così un po’ surreale il dibattito di ieri su una Nadef che vedrà confermate le sue previsioni solo se non succederà quel che sta già succedendo.
Prudente, Conte si è mantenuto in parlamento quanto più possibile sulle generali. Ha ripetuto i titoli già elencati, sottolineando la centralità della transizione verde, senza addentrarsi nei particolari. Unica novità, la scoperta dell’altra metà del cielo: «Una parte significativa delle risorse sarà destinata all’occupazione femminile». Le pressioni in questo senso erano del resto invincibili. Numerose associazioni si erano esposte nei giorni scorsi sino all’invio della lettera a Conte e al governo firmata da 36mila donne e promossa da sette associazioni. Anche qui il premier non è andato oltre l’impegno di massima ma in questo caso è già un vero passo avanti.
SOLO IN UN MOMENTO, di fronte ai parlamentari, Conte ha perso l’espressione serafica ed è apparso teso: quando ha insistito perché la marcia del Recovery Fund non rallenti: «Non dobbiamo permettere che possano generarsi ritardi e rinvii». Subito dopo, da Bruxelles, ha fatto eco con toni più ultimativi Luigi Di Maio: «Chiediamo tempi certi. L’Italia non può più aspettare. Non possiamo permettercelo». Difficilmente il premier e il ministro degli Esteri saranno esauditi. Il rallentamento è già in atto, imprimere una nuova accelerazione non sarà facile. È un ginepraio nel quale convergono diversi conflitti di natura diversa. C’è lo scontro tra il parlamento europeo e il Consiglio, cioè i singoli Stati, sull’aumento del bilancio. Ieri il tentativo di mediazione è fallito, la situazione è impantanata. Segue la richiesta dei frugali di subordinare la distribuzione dei fondi al rispetto dei diritti sanciti dall’Unione ma violati da Ungheria e Polonia. Senza quel passaggio i frugali minacciano il no al Next generation Eu, se invece fosse accolta la richiesta sarebbero ungheresi e polacchi a bloccare tutto. Infine il braccio di ferro sempre meno sotto traccia con l’europarlamento, che considera insufficiente l’accordo trovato, con gran fatica, nel luglio scorso.
ALLA FINE IL RECOVERY passerà ma uno slittamento dalla prima alla seconda metà del 2021 è sempre più probabile. Tutto è in bilico ma i rischi di una nuova crisi sanitaria che si ripercuoterebbe subito sull’economia e di un ritardo del Recovery Fund sono troppo concreti perché a Roma non dilaghi massimo allarme.