All’inizio il titolo era solo il nome del file nel quale l’autore di Meno di zero e di American Psycho sommava esperienze dirette e riflessioni sulla deriva autoritaria e conformista nella quale, a suo parere, si trovano oggi politica, società, cultura e arte negli Stati Uniti.

Poi White divenne il titolo del suo ultimo libro (traduzione di Giuseppe Culicchia, Einaudi, pp. 271, euro 19.00) ma di certo Bret Easton Ellis non lo scelse a caso: richiama, infatti, il White Album di Joan Didion, autrice lucidamente anticonformista, che in quel saggio dissezionava i miti della cultura liberal e radical, allora egemone.

Anche Easton Ellis, in questo suo «album bianco», si scaglia contro gli imperativi soffocanti del politically correct, dettati da una cultura sedicente progressista le cui buone intenzioni stanno, secondo lo scrittore, uccidendo la libertà d’espressione in America. Se ha deciso di mantenere il titolo provvisorio anche a lavoro terminato è per l’implicita valenza ironica che quel «bianco» acquista in un universo politico e culturale ossessionato dall’identità e da ciò che Bret Easton Ellis definisce, nel suo libro, «culto delle vittime».

Per disegnare un quadro sconfortante, che somiglia molto a quello italiano, Bret Easton Ellis ondeggia tra critica letteraria e cinematografica, racconta i millennial attraverso le sue frequentazioni dirette, usa l’autobiografia per mettere a nudo la funzione in origine vitale e oggi soffocante dei social. Trasforma così il saggio in una sorta di romanzo. «Il mio editore – racconta ridendo l’enfant terrible della narrativa americana, a Roma per la Festa del Cinema – mi ha detto: “con questo titolo non venderai niente. Ti massacreranno!”. Quindi ho deciso di tenerlo».

Il suo libro è un atto di accusa contro il dettato politico e culturale che impone – pena la messa al bando e il linciaggio mediatico – di pensare allo stesso modo e esaltare, anche nella produzione letteraria, cinematografica e televisiva, gli stessi valori, la stessa prospettiva sulla realtà. Questa imposizione si esercita, secondo lei, non solo sul «cosa dire» ma anche sul «come dirlo», riflettendosi sullo stile, che lei ha sempre considerato l’essenza dello scrivere?
Essendo la forma contenuto e viceversa, non si può toccare l’una senza toccare anche l’altra. Ma deve essere chiaro che in gioco non è più tanto il contrasto delle culture sessiste o omofobiche: stiamo entrando in un’epoca di puritanesimo. Probabilmente perché tutti si sentono insicuri, minacciati, esposti a pericoli, l’idea è che bisogna proteggere non solo i bambini ma anche gli adulti, che vengono fatti regredire a infanti. Per esercitare una «protezione» contro questo senso di minaccia ci si chiede se un quadro debba essere esposto, se un film debba o non debba essere censurato, se un libro possa essere letto. In questa infantilizzazione generale, il cosa si dice, il cosa si mostra, il come lo si fa, ovvero il contenuto e lo stile, sono strettamente connessi.

In «White», lei analizza attentamente il ruolo che hanno assunto i social media nel condizionare il modo di pensare e di scrivere negli Stati Uniti. Pur essendo lei stato sempre piuttosto attivo e presente nei social, il suo giudizio è sostanzialmente negativo. Altrettanto severo è il verdetto sulla generazione che con i social è cresciuta, i millennial, da lei ha ribattezzati «Generazione Inetti». Posto che tutte le forme espressive si influenzano reciprocamente, qual è – a suo parere – l’incidenza della comunicazione veicolata dai social media sulla scrittura e sulla produzione in genere dei millennial?
Me lo sono chiesto molto spesso. Mi sono chiesto perché non ci sono romanzi importanti scritti da millennial e quanto questa assenza sia correlata con i social media. Non sto dicendo che i millennial non leggono romanzi, sia chiaro. Però non ne scrivono. Forse Internet ha modificato il senso stesso di questa forma della scrittura, e dunque anche della lettura. Un tempo, i romanzi erano un veicolo per scoprire il mondo, le altre culture, oggi questa funzione viene assolta da Google. Io leggo ogni mattina, per il mio piacere, saltando anche fra tre romanzi alla volta; ma la mia attenzione non è più catturata da quella lettura allo stesso modo di prima. Per molti, oggi, leggere significa scorrere messaggi sui social media. Ho appena finito i diari di Richard Burton, bellissimi: ogni giorno questo grande attore annotava puntigliosamente quali libri leggevano lui e Liz Taylor. Ma anche a Palm Springs, dove abito, vent’anni fa tutti in piscina avevano in una mano la crema solare e nell’altra un libro. Oggi hanno il cellulare.

E del suo contributo che dice? Il suo primo romanzo, «Meno di zero», fu considerato il massimo esempio di uno stile letterario influenzato dai media di allora, dai video di Mtv. Oltre che scrittore, lei è sceneggiatore, ha aperto podcast su Internet e i suoi tweet hanno spesso fatto scandalo: possibile che il suo stle non ne abbia risentito?
Io sono troppo vecchio perché il mio stile possa essere condizionato dai social media: la forma della mia scrittura è quella che è, e anche il riverbero di Mtv e dei video sui miei primi romanzi credo sia stato molto esagerata dai media, che inventarono per me la definizione di «Mtv Writer». Ma i contagi davvero importanti per me sono derivati da altri: Joan Didion, Ernest Hemingway, anche Stephen King.

I suoi libri hanno sempre mostrato una forte valenza provocatoria: non fine a se stessa, ma mirata a costringere il lettore al confronto con una diversa visione della realtà, capace di mettere in luce anche la sua stessa contraddittorietà. In «White», tuttavia, domina una visione pessimista, come se questo non fosse più possibile per colpa di una sorta di silenziosa censura, ma anche di una sempre più pervasiva autocensura. La situazione le sembra davvero così drammatica?
Lo è. Negli Stati Uniti, censura e autocensura sono ovunque. Le case editrici e le case di produzione televisive e cinematografiche sono in mano alle grandi Corporation, che devi consultare, sempre, per accertarti di poter scrivere a proposito di un dato personaggio. E se la Corporation ritiene che un contenuto o un personaggio non si possano vendere, bisogna cancellarli. Nelle case editrici passate sotto il loro controllo finanziario, ci sono appositi uffici che vagliano i testi e decidono quali contenuti potrebbero rivelasi troppo perturbanti o sconvolgenti per settori di pubblico considerati strategici. In questo caso, quei contenuti verranno eliminati.
Questo è vero anche per quanto riguarda la politica in senso stretto: se vuoi scrivere o preparare uno speciale televisivo sulla Cina non ci riesci. Certo, si può sempre opporsi e trovare il modo per pubblicarsi da sé, ma ormai anche alcune personalità rispettate esaltano apertamente l’autocensura, dicendo che non è una cattiva cosa.

La vera novità, però, risiede non tanto in questa logica delle Corporation, che in fondo è la stessa da sempre, ma nella indicazione di un’etica e di un’estetica delle «vittime» come brand vincente sul mercato. Nel suo libro lei si diffonde nell’illustrare l’obbligo di produrre solo contenuti edificanti, che esaltino la bontà delle «vittime», sostenendo come – oggi – questo sia molto più importante del produrre opere valide. Ma come si sia arrivati a questo stato di fatto, e perché proprio questo contenuto sia stato privilegiato dalle grandi Corporation, non è chiaro.
Le Corporation non perseguono l’ideale nobile di una società più giusta o più egualitaria, mi sembra ovvio, sono solo a caccia di denaro. Il culto delle vittime crea simpatia, raccoglie consensi, fa vincere premi. Ogni gruppo identitario ha le proprie lamentele, e ciascuno si sente a suo modo un candidato al ruolo della vittima, la cui esaltazione è ormai uscita dagli ambienti accademici, ha invaso i media, ed è sbarcata trionfante a Hollywood. C’è qualcosa di folle in tutto ciò, ovvero nella aspirazione a lasciarsi definire così: accettare queste «Olimpiadi delle vittime» significa acconsentire a farsi identificare dal disagio.

Forse il saggio più discusso nel «White Album» di Joan Didion, citato anche nel suo «White», è quello fortemente critico nei confronti del femminismo degli anni Settanta: i motivi in fondo sono simili a quelli che connotano oggi la cultura del vittimismo. Quale influenza ha avuto, a suo parere, il movimento #metoo, che si è diffuso essenzialmente nel mondo dello spettacolo, e in quello dei media?
Dal mio punto di vista, anche a proposito del #metoo ci sono due mondi: uno online e uno off line. Nel primo, ogni donna è una vittima degli abusi denunciati. Nel secondo, molte delle stesse donne pronte a accodarsi al #metoo, quando ne parlano alzano gli occhi al cielo e giudicano quanto hanno letto come stupidaggini. Il movimento era nato come un contributo positivo, ovviamente, ma si è poi è distrutto da solo, diventano troppo rigido e autoritario. L’idea di partenza, a me pare, era rimediare alle abissali differenze di trattamento economico tra uomini e donne a Hollywood, senza dubbio un obiettivo meritorio. Poi il progetto è diventato «diserbare» il campo maschile: ogni marito, figlio, cugino, fratello è diventato un sospetto stupratore. E così fino all’estate del 2018, quando il giudice Kavanaugh, nominato membro della Corte suprema da Trump, è stato accusato da una signora di averla trascinata in camera da letto non so più quanti anni prima. L’opinione pubblica americana si è divisa in una contrapposizione frontale che ha raggiunto vette di isteria. Ormai il tutto è circondato da una specie di miasma onirico e, almeno off line, in America sono molte le donne che lo riconoscono.

In «American Psycho», uno dei suoi maggiori successi, Donald Trump era il mito di Patrick Bateman, lo yuppie serial killer protagonista del romanzo. Nominato esplicitamente decine di volte, Trump è una presenza che riassume insistentemente tutto quanto lei ha preso di mira non solo fra quelle pagine ma in tutti i suoi libri. Come si spiega, allora, che il solo fatto di avere detto 1) che l’elezione di Trump è stata legale, 2) che non è precisamente un nuovo Hitler l’abbia resa oggetto di attacchi tanto violenti?
Me lo spiego con il clima di cui abbiamo parlato. Naturalmente, il fatto che io sia anti gli antitrumpisti non significa che sia favorevole al presidente, che non ho votato né voterò mai. Detto questo, non sono nemmeno disposto a far dipendere la mia felicità dal fatto che Trump sia stato eletto. Molte persone, tra cui il ragazzo millennial con cui allora vivevo, accolsero l’andata al potere di Trump come una malattia grave, e ci sono miei amici, vittime di questa specie di follia trumpista, completamente distrutti. Ecco, io credo che questo clima di isteria, questa negazione della contraddittorietà del reale e dell’esperienza umana tutta, non faccia bene a nessuno. Quando arrivi a perdere ogni possibile senso dell’ironia sei fottuto comunque.

Il suo ultimo libro, «Imperial Bedrooms», è del 2010. Da allora ha scritto sceneggiature, ha lavorato nel cinema e con i podcast ma non ha portato a termine nessun romanzo. A cosa sta lavorando?
Scrivere un libro, per me, è più importante che scrivere dieci sceneggiature. Sto lavorando al romanzo di cui parlo nelle prime pagine di White, ce l’ho in mente da decenni e ora sto davvero scrivendolo. È ambientato nel passato, prima di Meno di zero, dunque alla fine degli anni Settanta, e credo che sarà molto… forte. Racconta un’esperienza reale e davvero sconvolgente, che si verificò quando nella nostra classe arrivò una sorta di «straniero». Nonostante ci siano forti componenti autobiografiche, non è un memoir è un libro di finzione. Ma sto anche per dirigere il mio primo film horror: è già tutto pronto e definito, abbiamo trovato un produttore e le riprese cominceranno in primavera.