«Allah loves equality» dice il cartello tenuto ben in alto da un giovane pachistano. Accanto a lui, nella stessa fila, alcuni ragazzi omosessuali della comunità ebraica romana sventolano bandiere arcobaleno con al centro la stella di David. A vederli sfilare assieme viene da pensare che questo gruppo di ragazzi potrebbe essere l’immagine giusta per racchiudere il Gaypride che ieri ha percorso le strade di Roma, seconda tappa di un’«onda» che si concluderà il 19 agosto dopo aver toccato 24 città italiane.

«Corpi senza confine» è il titolo che gli organizzatori hanno voluto dare alla manifestazione. E non potrebbe essere più giusto, perché oltre ai giovani ebrei e musulmani che sfilano rivendicando lo stesso diritto a essere semplicemente quello che sono, ieri diversi confini, almeno per 24 ore, sono stati abbattuti. A partire dal fatto che tra le decine di migliaia di persone che hanno manifestato da piazza della Repubblica fino a Fori Imperiali non c’erano soltanto le associazioni Lgbtqi (lesbiche, gay, bisessuali, transessuali, queer e intersessuali), i militanti che ti aspetti di vedere in occasioni come queste. Accanto a loro, dietro striscioni colorati o a bordo di carri allegorici straripanti ogni genere di musica, si sono visti – alcuni per la prima volta – anche collettivi aziendali e non. C’era quello dell’American Express, l’Acea, Vodafone (che ha sponsorizzato magliette a striscione), il «Gruppo buddista arcobalena», i vigili del fuoco dell’Ubs, che seppure impegnati in una difficile vertenza non hanno voluto mancare. E poi la Cgil e la comunità canadese, in rappresentanza di un paese particolarmente benvoluto dai manifestanti, visto che in Canada le persone dello stesso sesso non possono solo sposarsi, ma anche diventare genitori attraverso l’adozione o la gestazione per altri. «E’ la società che finalmente si sta aprendo», commenta Mario Colamarino, presidente del Circolo Mario Mieli.

«La mia libertà protegge la tua», afferma uno dei cartelli mostrati dai manifestanti. Ma anche: «Sesso, razza, credo: bello perché vario» e, soprattutto, «Né Stato né Dio sul corpo mio». Chi sfila rivendica con orgoglio la propria identità sessuale, ma vuole anche mettere paletti precisi alle conquiste fatte, piccole o grandi che siano. In fondo la legge sulle unioni civili è stata approvata solo un anno fa dopo tre decenni di attesa, ma senza la possibilità di adottare il figlio del partner, a dimostrazione di come la strada sia ancora in salita.

«Corpi senza confini» anche perché quello che accade oltre i confini reali spesso fa paura. Non a caso la piattaforma politica che ha preceduto la convocazione del pride capitolino pone molta attenzione all’estero. A partire dagli Stati uniti, dove la presidenza rischia di fare cadere conquiste che si ritenevano ormai acquisite. «Bandire le persone perché di cultura o di religione diversa – spiegano le associazioni – definanziare le Ong che si occupano di genitorialità responsabile e di aborto, rendere legittimo discriminare sulla base proprie convinzioni etiche e religiose sono tutti pericolosi passi indietro per le nostre democrazie» Passi indietro che si vedono anche in Europa, con i governi che alzano muri per fermare i migranti, oppure indicano referendum, come fa la Romania, per modificare la Costituzione al solo scopo di impedire il matrimonio tra due persone dello stesso sesso. E al peggio non c’è mai fine. «In Cecenia – proseguono le associazioni, torna l’orrore dei campi di concentramento per le persone omosessuali, ma nella comunità internazionale pochissime voci istituzionali si sollevano per fermare questa barbarie».