Nell’ultima sala de La Terra Inquieta, la mostra curata da Massimiliano Gioni alla Triennale, è visibile Static (2009) di Steve McQueen. Il film riprende la Statua della Libertà al centro della baia di Manhattan. È ingegnoso proiettarlo al termine di un percorso espositivo che evoca i problemi della migrazione e della sconcertante realtà dei profughi. Considerato in seno a La Terra Inquieta, Static invita a riflettere che, dopo il 9/11, gli Usa smettono di fungere da luogo di espatrio e accoglienza. Si incrinano gli ideali liberisti di imprenditorialità e autoaffermazione, libero scambio e profitto, trasferimento e riconversione di energie umane su scala planetaria. Invece della coesistenza di etnie, comunità e culture, il mondo registra ulteriori conflitti, abusi e riviviscenze imperialiste che vedono il risorgente suprematismo bianco opporsi alla diversità islamista.
Ma Static fa venire in mente anche altro: la Statua è simbolo di un intendimento della vita umana al quale, benché in declino, ci si è ormai abituati, e che, in mancanza di alternative, ha ancora presa su buona parte dei terrestri. Tanto che potrebbe rispuntare lì dove meno ce lo si aspetta: nelle sale de La Terra Inquieta, dove opere di autori più o meno celebri (da Hatoum, Pinot Gallizio e Schütte a Bouchra Khalili e Hamid Sulaiman) attestano speranze, manchevolezze e crisi associate alla cosiddetta globalizzazione. Quell’intendimento origina ingiustizie e diseguaglianze perché avalla l’accumulazione del capitale, il suo fondarsi tanto sulla produzione quanto sul rendere registrabile e commercializzabile quel che non lo è ancora. Come si pone La Terra Inquieta a riguardo? Nell’esporre la contraddizione irrisolta dei migranti, apre una breccia nelle coscienze o offre un alibi di rispettabilità e correttezza politica a quanti si ritrovano comodamente d’accordo con il messaggio dichiarato della mostra? Difficile rispondere. Si è però stimolati a riflettere sulle dinamiche del vedere ammissibili nell’ambito museale e nell’arte contemporanea.
Ai fini dell’esercizio, è utile salire al secondo piano della Triennale, dove è allestita la personale del californiano Christopher Williams, a cura di Pia Bolognesi e Giulio Bursi. Anche qui ci si confronta con i temi della globalizzazione. Non si vedono terre e mari segnati dal passaggio degli esuli, bensì foto di cose, frutti, animali e persone ordinarie. Si evidenziano i mondi della tecnologia e della natura che, con il loro sbilanciamento, destabilizzano il pianeta e i suoi abitanti. A ciascuna foto si accompagna una didascalia che con minuzia descrive i contenuti dell’immagine. Ma questa esaustività non placa, anzi stimola, la curiosità di chi guarda, il quale può ritrovarsi interdetto dal perché mai le insegne luminose di una lavanderia o una coppia di spighe di grano meritino l’attenzione dell’artista. Già dalla prima sala, Williams enuncia la propria vocazione introspettiva: una foto rappresenta il tipo di parete mobile realizzata in un’esibizione precedente, a Bonn, e simile a quella che fronteggia i visitatori a Milano. La nuova parete contiene una fascia rossa anziché verde. C’è un richiamo a Milano dove, secondo Williams, il rosso è «inevitabile»: ricorre dalla rivista «Il Politecnico» alle sedie della Triennale. A ribadirlo è Study in Red (2009), esposta nelle immediate vicinanze di un estintore rosso. Mostra un piede inclinato mentre una mano alza (o abbassa) un calzino rosso. Qualità e resa visiva sono tali che l’occhio discerne quel che comunemente rimuove o non sintetizza. Abbandonati gli abituali modi di percezione e cognizione, ci si interroga su quel che in verità si coglie di un altro-da-sé. In analogia con la nozione di sostenibilità ambientale, si può parlare di una «sostenibilità visiva» che Williams promuove per elicitare l’esercizio critico della facoltà della vista che, congiunta al cervello, deve districarsi nell’habitat psicofisico di un pianeta appiattito dal compulsivo commercio di immagini uniformi e spurie.
Questo appello all’espansione della consapevolezza visiva collide con il tipo di sguardi sollecitati da La Terra Inquieta. È interessante confrontare tra loro le due mostre, tenendo conto che la personale riflette la poetica di un artista laddove nella collettiva l’insieme approntato dal curatore è più rilevante delle singole opere, suggestive o meno che siano. Mentre le foto di Williams forzano a riconoscere la complessità dei mondi in cui si vive, la collettiva di Gioni sembra concepita per facilitare il compito del pubblico. Non solo tratta un tema di grande risonanza – la questione dei migranti è da tempo all’ordine del giorno dei media di ogni tipo –, ma è composta così da ricordare costantemente ai visitatori perché sono lì.
Una mappa di Boetti: buonumore
Sala dopo sala, una carrellata di immagini evoca una gamma di situazioni pressanti quali il conflitto in Siria, lo stato di emergenza di Lampedusa, la vita nei campi profughi, la figura del nomade e dell’apolide. L’allestimento di per sé genera significati e stati d’animo: dalle luci alla distribuzione delle opere lungo le pareti, nelle stanze o in sale di proiezione, esso concorre a ribadire il contenuto manifesto (speranze, ansia etc.). Ma il tutto talvolta si sfalda e, come in un lapsus, lascia trapelare un impulso cosmetico. Per esempio, una stanza al pianterreno offre una orchestrazione di disegno, scultura, video, foto, stampe, dove l’effetto estetico si direbbe sovravanzi il significato. E ancora: chi entra al secondo piano incontra una coloratissima mappa di Boetti che pare messa lì a suscitare il buon umore. E il maquillage sfiora il ludico nella sala seguente, luminosissima, dove luccicano biglie di vetro e superfici dorate e lo stesso barcone pare un coup de théâtre.
Entrambe le mostre vorrebbero dar conto dell’irrappresentabile. Williams esorta a smascherare mediazioni e camuffamenti: niente è scontato. La Terra Inquieta condensa il dramma e il packaging; l’innegabilità di un mondo lacerato e l’impeccabilità dell’allestimento. Non è chiaro se ridefinisca lo stato delle cose o lo perpetui esibendo un compendio di immagini e racconti che, anziché sfuggire al consumo e alla facile fruizione, si aggiunge al già noto.
Naturalmente, La Terra Inquieta ipotizza che l’arte rappresenti i migranti senza assoggettarli alla spettacolarizzazione e al giornalismo sensazionalistico. Ma l’ipotesi forse eccede in buona fede. Nel Novecento cadono i distinguo tra oggetti artistici e ordinari, arte e denaro, realtà e finzione. Si ignora da decenni che cosa legittimi la pratica artistica (cultura? gusto? industria del lusso?). Sarebbe perciò fuorviante supporre un’indipendenza dell’arte che audacemente propugna il progetto di una Terra in comune. E poi si è certi del potere delle immagini dell’arte? Non sono piuttosto irriducibili o mancanti rispetto ai referenti che pur evocano? Riesce l’arte a dire la verità fuori da quel regime di saperi, creatività e intrattenimento che è il mercato e dentro il quale essa è oggetto e strumento? Sono alcuni dubbi sollevati da Williams. Attenuandoli, la collettiva di Gioni può inavvertitamente compiacere il narcisismo di quei visitatori vogliosi di stare al posto giusto, schierati con gli oppressi assieme all’arte.
Il comfort e il marketing
Inquieta, insomma, che una mostra i cui intenti dichiarati sono altri possa dispensare comfort e alimentare la mentalità che vorrebbe denunciare. Purtroppo non è detto che l’arte unisca al di là delle fratture del mondo. La condivisione è per lo più precaria, causata dalle mura protettive di musei e gallerie nonché dalla indole disciplinata degli habitué di quei luoghi. La Terra Inquieta rischia di trasformare in ulteriore oggetto di voyeurismo, pubblicità e profitto una complessità umana e artistica resistente alle agevoli dicotomie di buoni e cattivi, vittime e colpevoli. Si finirebbe col rafforzare non solo l’ideologia del marketing, della quale i migranti sono fra i tanti effetti, ma quel principio di realtà condivisa di cui si serve il potere per creare assuefazione e sudditanza. Talvolta, l’arte (moderna e non) prova a squarciare il velo di questa illusione totalizzante, ma raramente l’impresa riesce. Quando avviene lo si chiarisce meglio in seguito, o giudicando un’opera nella sua autosufficienza. Non è escluso quindi che qualcosa di simile si verifichi per alcuni dei lavori ospiti de La Terra Inquieta. A quel punto, fuori da contesti frastornanti ed estetizzanti, i loro valori nuovi appariranno irrevocabili.