Studiando gli scimpanzé del parco nazionale di Tai (Costa D’Avorio), un’équipe internazionale di ricercatori ha rivelato la struttura nascosta nelle vocalizzazioni dei primati più vicini a noi. Quello che emerge è un linguaggio complesso, con molte analogie con il nostro. L’affascinante scoperta è stata pubblicata oggi sulla rivista Communications Biology ed è stata realizzata registrando per oltre un anno 46 scimpanzé. Le 900 ore di nastri così raccolte hanno permesso ai ricercatori di individuare i suoni elementari emessi dalle scimmie. Lo studio mostra che gli scimpanzé non solo utilizzano un alfabeto basato su dodici «urli base», ma sanno anche combinarli secondo regole stabili e nient’affatto casuali.

LE REGISTRAZIONI sono state analizzate con tecniche statistiche, come quando si prova a decifrare un codice segreto. I ricercatori hanno così osservato che la lingua degli scimpanzé di Tai possiede le tre caratteristiche tipiche di un linguaggio evoluto come il nostro. Innanzitutto, la flessibilità, cioè capacità di associare unità provenienti da un alfabeto limitato. Inoltre, l’importanza dell’ordinamento: anche in italiano, ad esempio, l’articolo viene sempre prima del nome e il contrario non succede mai. Infine, la ricombinazione, cioè la facoltà di associare sequenze di suoni-base in composizioni più articolate, che usiamo anche noi quando mettiamo insieme le parole per costruire le frasi, sfruttando un numero limitato di fonemi elementari.
«Questa è una novità» dice al manifesto Emiliano Zaccarella, neuroscienziato all’istituto «Max Planck» di Lipsia (Germania) e uno degli autori della ricerca. «Finora si riteneva che le sequenze emesse degli scimpanzé arrivassero a due o tre unità al massimo. Invece abbiamo registrato sequenze molto più lunghe, fino a dieci unità». Piccola curiosità, ancora tutta da comprendere: le «frasi» più lunghe sono state pronunciate dalle femmine, le sole ad andare oltre gli otto suoni base nella stessa sequenza.

La decodifica completa del linguaggio degli scimpanzé però è ancora lontana. I ricercatori non sono ancora in grado di assegnare un significato alle sequenze registrate. Si sa però che alcuni particolari «urli» servono a dare l’allarme al resto del gruppo – per esempio se viene rilevata la presenza di un predatore. Oppure sono istruzioni legate agli spostamenti da un punto all’altro della foresta. «L’attribuzione del significato è un lavoro ancora in corso» racconta Zaccarella. «Sarà interessante capire se due vocalizzi, una volta combinati insieme, anche per i primati assumono un significato diverso. Come quando noi diciamo “tirare le cuoia” e non ci riferiamo né all’azione fisica né al pellame».

SEBBENE LA CAPACITÀ di combinare suoni sia già stata osservata in altre specie, come i cetacei o gli uccelli, è la prima volta che un linguaggio di un’altra specie viene analizzato così in dettaglio fino a farne emergere una sintassi per quanto abbozzata. Studiare il linguaggio delle scimmie però serve soprattutto a capire noi stessi. Gli scimpanzé sono assai simili a noi per caratteristiche evolutive e genetiche. Perciò, capire come si sia sviluppato il loro linguaggio potrebbe insegnarci molto anche sull’evoluzione del nostro, che sembra essere emerso a un certo punto della nostra storia in circostanze ancora molto misteriose.
«La nostra capacità di elaborare e comunicare efficacemente persino concetti immaginari e slegati dall’esperienza è apparentemente unica nell’ecosistema» spiega Zaccarella. «Ma se questo sia solo un pregiudizio dettato dalla nostra ignoranza dei linguaggi degli altri animali è ancora tutto da scoprire».