Sabato pomeriggio, Roma, Chiesa di Sant’Andrea delle Fratte, bella basilica borrominiana controriformata. Della «rivolta» del popolo democratico all’incontro «spregiudicato» fra il segretario del Pd Renzi e il «pregiudicato» Berlusconi, nessuna notizia. Dalle tre e mezza nella piazzetta, a due passi dalle sede nazionale del Pd dov’è atteso il Cavaliere, blindata come da grande occasione, si raggruma una piccola folla griffata Popolo viola, che di viola non ha più neanche le sciarpe. Cartelli, foto di ordinanza del Cavaliere con le sbarre disegnate a pennarello. Plotone di giornalisti. Quando alle quattro meno cinque arriva l’auto blù di Palazzo Grazioli, un uovo si rompe sul parabrezza, parte un coro «vergogna». Ma anche «viva gli sposi»: fa più sorridere che ricordare il ’93 delle monetine contro Craxi.

Il Cavaliere è stato pregato di entrare dal portone del retro del Nazareno,per evitare la foto che disturberebbe – ma su questo giudizio come sul resto il Pd si spacca – l’immaginario del militante democratico; immaginario per la verità del tutto indifferente ai dirigenti Pd, almeno finché c’era da impallinare l’elezione di Prodi al Quirinale, o da votare un governo con il pregiudicato di oggi, all’epoca giudicato giù in due gradi di giudizio. Alle quattro in punto la prima immagine del Cavaliere dentro casa Pd: sale le scale, Gianni Letta lo segue, fa strada Lorenzo Guerini, portavoce della segreteria. Tre facce tese. La quarta, quella di Matteo Renzi, li aspetta nello studio del secondo piano, sotto la foto del Che e Fidel che giocano a golf. Dopo due ore e mezza, alla conferenza stampa, il leader Pd è laconico è generico. «Tra noi c’è profonda sintonia», dice. Accetta solo due domande e accuratamente le evade. Sfortunamente la «sintonia» è la stessa parola che Enrico Letta ha usato a sua volta per descrivere la sua intesa con Renzi all’uscita di una cena, venerdì sera, gelida, tesa e poco cordiale.

Ma l’ordine di scuderia è «soddisfazione». I renziani giubilano via twitter («Fumata bianca», Marcucci; «Siamo ad un passo dalla Terza Repubblica», Bonafé; «Possiamo fare in due mesi quello che non si è fatto in vent’anni»). Ma la realtà è che Renzi frena la rincorsa che lo porterebbe a sbattere sulla maggioranza. Sulla legge elettorale, spiega, c’è sintonia su «un modello che favorisca la governabilità, il bipolarismo e che elimini il potere di ricatto dei partiti più piccoli», ma apre agli alleati, «abbiamo condiviso l’apertura ad altre forze politiche di scrivere questo testo di legge che, se nelle prossime ore saranno verificati tutti i dettagli, presenteremo alla direzione del Pd affinché voti». L’ora della verità è dunque rimandata a lunedì alle quattro. Ai suoi, mentre scappa verso il treno che lo riporta a Firenze – il segretario si incrocia la vita sottoponendosi all’obbligo di non usare l’auto – ha il tempo di dire che «questo week end si lavora per chiudere l’accordo con Scelta Civica, Sel – venerdì ha promesso di parlare al congresso di Vendola, a Riccione – e anche con il Ncd. In quel momento a Palazzo Grazioli Berlusconi rispolvera il cerone per andare sulle sue tv a mostrarsi vivo vegeto e ancora a cavallo.

Nodi che verranno al pettine alla direzione di lunedì. La minoranza bersaniana si assottiglia ma non ritira la minaccia di aprire la crisi. «Renzi rallenta», dice Stefano Fassina. «Ma per noi l’incontro con Berlusconi, e non il coinvolgimento di Forza italia nel dialogo, resta un errore». E se lunedì iltesto arriverà al Nazareno conterrà «il miniporcellum», lo spagnolo corretto, «a noi non piacerà e voteremo contro. Poi apriremo la discussione nei gruppi parlamentari. E il governo avrà un problema». Spiegano altri in ordine sparso: «Lo spagnolo è stato sventato e c’è qualche apertura verso di Alfano, ma il nodo sono le liste bloccate».

Ma la minoranza bersaniana è ancora più minoranza, da ieri. Matteo Orfini, giovane turco, ha un’altra idea dell’esito dell’incontro Renzi-Berlusconi: «Secondo me si chiude, con soddisfazione di tutti, su uno spagnolo corretto in senso tedesco. Cioè quello che sosteniamo noi». E i bersaniani che minacciano la crisi? «Sono sbandati». È la certificazione della rottura della sinistra interna. Avanti Renzi, ma con giudizio.